Il Mediterraneo è l’immagine di Aylan inerme sul bagnasciuga di una spiaggia turca. Sono i migranti, involontariamente responsabili della mutazione del consenso elettorale in Europa e causa del successo o della sconfitta dei governi sulla sponda Nord.
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Il Mediterraneo è l’Isis ed è la nuova contesa – già iniziata – per occupare il vuoto geografico lasciato dai terroristi.
Tuttavia, il Mediterraneo sponda Sud nella sua dimensione geopolitica allargata che incomincia nel Maghreb e arriva al Golfo fino a Yemen e Oman, Iran compreso, è anche un corpo socio-economico in movimento. Dal 1995 al 2016 il Pil della regione è cresciuto del 4,4 per cento l’anno (quello della Ue oggi è dell’1,9), secondo Srm, il centro studi del Gruppo Intesa.
La terza edizione di MED, i “dialoghi mediterranei” organizzati a Roma dalla Farnesina e dall’Ispi, ha cercato di connettere conflitti e opportunità della regione. Il titolo di quest’anno, “Oltre il disordine, un’agenda positiva”, era un understatement: una ragionata dichiarazione d’ottimismo.
Scegliere statisticamente un periodo temporale così esteso – 1995/2016 – in qualche modo nasconde alcuni fallimenti nazionali.
Sono anche stati volutamente ignorati i danni peggiori dei conflitti: le statistiche escludono Libia e Siria e il disastro umanitario dello Yemen.
Inoltre alla crescita economica nel mondo arabo, matematicamente anche del Pil pro-capite, non ha quasi mai comportato una reale distribuzione della ricchezza nei singoli paesi né promosso riforme.
Tuttavia mi sono convinto che seguendo le tracce della Cina vedrò il futuro.
E se dal 2001 al 2016 l’interscambio cinese con la regione Mena (Middle East-North Africa) è aumentato dell’841,6 per cento, da 23 a 215 miliardi, allora vuol dire che il Medio Oriente non è solo conflitti. Mentre noi in Occidente partecipavamo a guerre e mediazioni, armavamo dittatori che poi facevamo cadere con le armi, i cinesi pensavano agli affari.
In realtà, se escludiamo lo scontro di frontiera del 1969 con i russi sull’Ussuri, è dal 1962 (con l’India sull’Himalaya) che la Cina non combatte una guerra in nessuna parte del mondo.
Da allora gli americani hanno combattuto in Vietnam, Laos e Cambogia, a Grenada e Panama, in Libano, Kuwait, Somalia, Afghanistan, Iraq e Siria, un po’ meno direttamente in Libia e Yemen.
Dopo l’ultima abbuffata di conflitti dell’era Bush-Cheney-Rumsfeld, Barack Obama aveva avviato una presa di distanza controllata, anticamera di un disimpegno dal Medio Oriente. Donald Trump sta compiendo una rapida disconnessione caotica.
Intanto, in tutti questi anni, a suo modo la Cina c’è sempre stata.
E oggi, mentre la presidenza americana affida le chiavi della regione a un ambizioso principe saudita di 32 anni, nel luglio 2017 Pechino aveva già investito in Medio Oriente il 18 per cento dei primi 41,47 miliardi spesi da Obor, la nuova via commerciale e infrastrutturale della seta.
Perché nella sponda Sud del Mediterraneo noi continuiamo a vedere solo migranti, foreign fighters e musulmani. Loro vedono 500 milioni di potenziali consumatori: una buona parte dei quali lo sono già.
A proposito di futuro, Obor nel suo complesso prevede investimenti per mille e 400 miliardi. Al MED di Roma l’economista Jeffrey Sachs raccontava invece che nei suoi incontri con i governi europei, ai quali raccomandava d’investire in educazione nei paesi africani dai quali vengono i migranti, si sentiva sempre rispondere che mancavano i fondi.
Ora, non è necessario esagerare come Fatima Sahin – anche lei ospite a MED – la sindaca di Gaziantep, Turchia, che in quattro anni ha integrato 400mila profughi siriani in una città non più grande di Milano. Ma qualche apertura mentale ed economica in più farebbe comodo anche al futuro della nostra sponda settentrionale del nostro Grande mare.
Conflitti a parte e ostinazione a non volerli chiudere anche quando la soluzione diplomatica è già scritta, la sponda meridionale resta problematica. Per questo “Oltre il disordine, un’agenda positiva” era una dichiarazione d’ottimismo, non una notizia.
Abraham Yehoshua, seduto accanto a me in sala, si è piegato dalle risate sentendo il segretario generale della Lega Araba Aboul Gheit dire che la causa di tutte le instabilità della regione era il conflitto fra israeliani e palestinesi.
“Ma quello crede davvero che sia colpa nostra se sauditi e iraniani si prendono a bastonate?”. No, ho risposto al grande scrittore israeliano, lo dice tutti gli anni qui a MED, ma non si preoccupi: non gli crede nessuno.
L’iracheno Ibrahim al-Jafaari, ministro degli Esteri del sesto produttore mondiale di petrolio e secondo in Medio Oriente, ha chiesto che la comunità internazionale organizzi un piano Marshall per ricostruire Mosul, distrutta dall’Isis.
Ma in queste spigolature di MED preferisco ricordare l’illuminante riflessione del libanese Fouad Makhzoumi, uno dei più furbi uomini d’affari di un paese di uomini d’affari furbissimi (il suo collega egiziano Naguib Sawiris, sostiene che essere libanese non è una nazionalità ma una professione).
Ha sostenuto Makhzoumi: “Dalla dichiarazione Balfour a oggi, noi arabi tendiamo a far fare agli altri. Noi facciamo poco. E quando i governi fanno le riforme, le fanno per perpetuare il loro potere, continuando a ignorare che il 60 per cento degli abitanti del Medio Oriente ha meno di trent’anni”.
È così che nascono e falliscono le primavere arabe.
L’analisi è stata pubblicata da ISPI con il titolo “Credere nel Mediterraneo nonostante tutto” e ripubblicata in accordo su TPI con il consenso dell’autore.