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“Il mio viaggio di Natale insieme ai 300 migranti della Open Arms: scabbia, gelo e un neonato di 2 chili senza latte”

Credit: Valerio Nicolosi

Il reportage di Valerio Nicolosi, che durante le festività si è imbarcato sulla nave della Ong spagnola diretta verso Gibilterra: a bordo persone ammassate, freddo e poche provviste

Di Valerio Nicolosi
Pubblicato il 27 Dic. 2018 alle 12:19 Aggiornato il 11 Set. 2019 alle 02:35

“Abbiamo salvato 313 persone, sono tutte sulla Open Arms. C’è anche un bambino di 2 giorni. Tu che fai per le feste?”. Riccardo Gatti è il comandante della nave Astral, veliero della ONG Open Arms e capo missione della stessa. Si trova a Roma per un periodo di vacanza e partecipa a un evento a sostegno della sua organizzazione. La Astral, senza di lui, il giorno dopo partirà da Barcellona per andare in appoggio alla traversata che dovrà affrontare la Open Arms.

In realtà in quel momento non c’era nemmeno il porto di destinazione. Malta e Italia, i paesi più vicini con i “porti sicuri”, avevano già negato l’approdo. La Spagna, paese di bandiera della nave, non si era ancora espressa e quindi rischiavamo un altro caso Aquarius o Diciotti.

A quel punto è partita subito la macchina organizzativa: prima di tutto bisognava trovare un equipaggio, poi comprare le provviste e, in ultimo, partire. Il giorno dopo, il 22 di dicembre, nel pomeriggio eravamo tutti pronti al porto di Badalona, accanto a Barcellona, per salpare e mettere il timone verso sud.

In nave c’è Oscar Camps, il fondatore della Open Arms, che ci dà la buona notizia: ”Tenemos un puerto, Algeciras”. La Spagna quindi ha assegnato il porto di sbarco, anche se molto lontano. Ad Algeciras ci sono stato lo scorso agosto, proprio con la Open Arms (qui il diario di bordo). Sbarcavamo con 87 persone che avevamo recuperato una settimana prima.

Quello è il porto dove il Salvamento Maritimo spagnolo insieme alla Guardia Civil coordinano tutti i soccorsi che stanno effettuando nella zona di mare tra Marocco e Spagna. L’unico problema è che Algeciras è il porto mediterraneo più lontano di tutti. “No va a cambiar nada” mi dice Oscar, “necesitan de comida”.

Credit: Valerio Nicolosi

Non cambia nulla, hanno bisogno di cibo. Quindi si parte comunque, anche se c’è un porto di sbarco. La Open Arms è sì attrezzata per recuperare tante persone, però le provviste non bastano per 310 persone e una settimana di navigazione: 310 e non 313, perché nel frattempo Malta ha dato l’ok per l’evacuazione immediata in elicottero di Sam, il bambino di 2 giorni insieme alla mamma e l’Italia, tramite la Guardia Costiera, ha evacuato un ragazzino di 14 anni somalo, a causa di una infezione grave ai tessuti del viso.

I 310 che restano provengono da diversi paesi, ci sono anche due persone palestinesi a bordo. Tutti diversi percorsi ma tutti con la stessa destinazione: Europa, tramite la Libia. Questo non è un dettaglio perché ormai le persone che si mettono in cammino scappano due volte: la prima dal proprio paese, che sia per fame o per guerra, e la seconda dalla Libia dove tra torture, rapimenti e richieste di riscatto è diventato l’inferno.

Anche il Papa si è mobilitato per questo calvario quotidiano ma l’Italia continua a sostenere un sistema in cui delle bande armate si sono autoproclamate Guardia Costiera nel lato marittimo e gestori delle carceri nel lato terra.

Tracciamo la rotta delle due navi, ci diamo un “way point”. Open Arms ha un passo più lento: 6 o 7 nodi, non di più. La nave è piena ed è difficile spingere. Astral tra vela e motore tocca anche i 9 nodi decidiamo quindi di spostare il punto d’incontro più a est, in modo da vederci prima e non dover aspettare.

Per noi i primi due giorni di navigazione sono buoni. Sistemiamo le provviste e il veliero. Quando manca poco all’incontro, il mare inizia a muoversi molto e il vento sale fino a 33 nodi. Troppo per abbordare un rimorchiatore con un veliero, anche solo con i gommoni. Caliamo subito le vele per evitare di essere trasportati dal vento e iniziamo comunque la manovra.

Marc, il comandate della Open Arms, ci dice che le provviste possono essere spostate anche il giorno dopo. Andiamo con il minimo indispensabile, io, Oscar Camps e Sara Alonso, una giornalista della radio pubblica spagnola.

La Open Arms è piena, pienissima. Fa impressione vederla così. Eppure nelle precedenti missioni avevamo caricato tante persone e in passato ha salvato più di 310 persone insieme.  Solo che all’epoca, 2015 e 2016, la Guardia Costiera Italiana coordinava tutti i soccorsi e spesso faceva da ponte tra le ONG e i porti, in modo da liberarle il prima possibile dalle persone e metterle velocemente di nuovo nella condizione di prestare soccorso.

Tutti si affacciano e ci salutano. Da poppa a prua, spalmati sui diversi ponti della nave, sono ovunque. Il mare è molto mosso e il rimorchiatore si muove, aspettiamo per avvicinarci e restiamo sul gommone in attesa di onde più benevole. Alla fine dobbiamo desistere. Saliremo a bordo il giorno dopo, nella speranza che il tempo migliori.

“Prepariamoci a un brutta nottata”, dice Savvas, il marinaio greco a bordo della Astral. Con lui ho condiviso già altre missioni e anche senza vedere il meteo è sempre attendibile. Anche stavolta, purtroppo, non sbaglia. Non facciamo in tempo a bloccare tutte le provviste che gli oggetti a bordo iniziano a volare da destra a sinistra e ritorno.

Restare in piedi è difficile ma riusciamo a fermare tutto con le corde e a metterci tutti in coperta. In questo caso stare nel posto più arieggiato è la soluzione migliore, anche se spesso non basta. Io ho la cabina a prua e, in queste situazioni, non è nemmeno pensabile di avvicinarsi a quella zona, i conati sarebbero immediati. Dormo sul divano tra le provviste, riesco a ritagliarmi uno spazio e va più che bene. Navighiamo a poche miglia dalla Open, praticamente a vista.

Il pensiero va a loro, alle persone ammassate sul ponte di poppa, a prua e sulle scalette. Lo spazio vitale è poco ma c’è tanta voglia di arrivare al porto e chiudere questo lungo viaggio, iniziato per alcuni qualche anno fa. La mattina dopo, ancora con lo stomaco sottosopra e il sapore acido in bocca, saltiamo sul gommone con le provviste. Il mare continua ad essere mosso ma il peggio sembra essere passato.

Credit: Valerio Nicolosi

“Siamo stanchi”, è quello che ripetono tutte le persone. Nonostante questo sembra che la nostra visita abbia portato una boccata di aria fresca. In realtà anche i soccorritori e il tutto l’equipaggio non hanno mai smesso di inventare giochi per i bambini e stare vicino ai più grandi.

“Ci sono diversi casi di scabbia, soprattutto per il gruppo che viene dalla Somalia. Il problema è che le ferite sono infettate. Noi continuiamo a spurgarle ma in queste condizioni è difficile. Non è niente di grave ma a loro fanno male, un conto è arrivare in Sicilia o a Malta, un conto è dover arrivare sullo stretto di Gibilterra”. Me lo racconta Giacomo Pacassoni, medico di bordo italiano con alle spalle altre esperienze in mare. Lui si sta barcamenando tra gli oltre 300 passeggeri.

Il freddo colpisce tutti, di notte in questo periodo la temperatura scende molto e alcuni non hanno nemmeno i pantaloni e le mutande. Hanno solo coperte. A bordo c’è un caso di epilessia ma anche in questo caso con uno sbarco “veloce”, ossia di 2/3 giorni, tutto sarebbe stato più facile. Ci fermiamo a parlare con due vecchi amici, anche se è la prima volta che ci “vediamo” di persona. In realtà siamo in contatto sui social e lo scopro in quel momento. Però aver fatto missioni, seppur separati, ti porta a una condivisione forte.

La domanda che pongo non può non essere su Sam, il piccolo di 2 giorni arrivato a bordo il 21 dicembre. “La prima cosa che ho pensato è stata: cazzo ancora!” La scorsa volta aveva fatto partorire una ragazza appena salita a bordo. Vedere questi ranocchietti fa tremare le gambe. Sam a occhio pesava meno di 2 chili, la mamma non aveva latte quindi da quando era nato sulla spiaggia, non aveva mai mangiato. Gli abbiamo dato un biberon, dopo un po’ ha iniziato a poppare. Il primo impatto con il mondo non è stato proprio bello per lui”. Giacomo mi racconta che la temperatura era di 33 gradi, bassissima, e che non avrebbe retto ancora a lungo sulla nave.

Giacomo vieni richiamato al lavoro, a bordo sono davvero tanti e io approfitto per parlare con dei ragazzi. Mi raccontano di essere scappati prima dalla Somalia e ora dalla Libia: “Quasi un anno ci siamo stati, è stato un inferno. Non vogliamo più tornarci da quelle parti”.

Circa un terzo sono somali, poi ci sono persone del Sud Sudan, un siriano, due palestinesi e altre nazionalità. Nel giro incontro Magali, una ragazza italo-argentina che fa la soccorritrice. Lei l’avevo vista nei video di Open Arms dei giorni precedenti. Insieme ad altri membri dell’equipaggio faceva giocare i bambini. Il tempo di un sorriso, una breve presentazione e lei ricomincia a parlare con gli adulti e poco dopo la trovo in mezzo ai bambini a giocare. Instancabile quasi da far tenerezza.

Credit: Valerio Nicolosi

Vado a poppa, salgo sul ponte, faccio un giro completo e quasi non riconosco quella barca che è stata la mia “casa” per circa un mese. La conosco in ogni minimo dettaglio, eppure è così carica da non riconoscerla. Muoversi è difficile ma arrivo a prua dove ci sono i sud-sudanesi che mi salutano, uno parla francese e io rispolvero quel poco che so.

Anche lui è scappato dal suo paese ma poi si è trovato bloccato in Libia. È la seconda volta che tentava in mare, la prima volta lo hanno intercettato i libici ed è tornato in carcere. Mi viene in mente il libro “Bilal” di Fabrizio Gatti. Nel libro viene usata spesso una parola. “Spiaggiati”. È il termine che i migranti stessi utilizzano quando sono fermi in un posto e non hanno né i soldi per andare avanti né quelli per tornare. Spiaggiati dà l’idea di chi non può fare nulla ma spera sempre che la situazioni cambi. A volte succede, spesso no. Spiaggiati si muore.

È tempo di andare. Le due navi prenderanno due rotte differenti, la Astral ha portato a termine il lavoro e può rientrare a Barcellona. La Open Arms continuerà verso Algeciras, l’arrivo è previsto per il 28 mattina e a quel punto inizieranno le procedure di sbarco.

Il problema ora resta nel Mediterraneo Centrale, dove la Sea Watch 3 ha a bordo 33 persone senza un porto sicuro dove dirigersi. Italia e Malta negano l’approdo e la Ong tedesca non sa come procedere: 33 non sono 310, la situazione è più gestibile, però non è pensabile che le si lascino in mare. Sembra che alcuni comuni tedeschi abbiano dato la disponibilità ad ospitare queste persone, la decisione però passa per il ministro degli interni Seehofer. L’unica cosa certa è che anche loro hanno bisogno di un porto sicuro, il prima possibile.

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