“Il sole era molto forte e la barca ha iniziato a sgonfiarsi. Tutti i bambini sono morti. Come potevamo restare così tante ore sulla barca senza essere salvati? Le persone hanno iniziato a bere acqua salata. Perché ci hanno lasciati morire in mare?”
Questa è una delle testimonianze dei superstiti al naufragio avvenuto al largo delle coste libiche nei primi giorni di settembre, in cui più di 100 persone sono morte affogate mentre chiedevano disperatamente aiuto.
L’équipe di Medici Senza Frontiere (Msf) presente in Libia li ha incontrati per prestare soccorso e ha ascoltato le loro storie.
In base alle testimonianze raccolte da Msf, due gommoni hanno lasciato la costa libica nelle prime ore del mattino di sabato primo settembre. Ogni nave trasportava più di 160 persone di diverse nazionalità, tra cui sudanesi, maliani, nigeriani, camerunesi, ghanesi, libici, algerini ed egiziani.
Un gruppo di 276 persone, tra cui alcuni sopravvissuti al naufragio, è stato riportato indietro nella città portuale di Khoms (120 chilometri a est di Tripoli) dalla guardia costiera libica domenica 2 settembre.
Una strage, come scrive il paletnologo Furio Vassallo, tenuta nascosta per dieci giorni da tutte le autorità libiche ed italiane. Una strage sulla quale si dovrebbe indagare.
“Non avevamo acqua da bere e bevevamo quella del mare. Credevo che la guardia costiera italiana ci avrebbe salvati, ma alla fine abbiamo visto arrivare i libici, che ci hanno portato indietro. Abbiamo visto i corpi di due persone morte durante la traversata e molte persone piangere”, racconta un bambino di soli 10 anni.
“Non eravamo lontani dalla costa maltese. Abbiamo chiamato la guardia costiera italiana e abbiamo inviato le nostre coordinate, chiedendo assistenza mentre la gente iniziava a cadere in acqua. Ci è stato detto che avrebbero mandato qualcuno. Ma la barca ha iniziato ad affondare”, spiega uno dei sopravvissuti.
“Non potevamo nuotare e solo poche persone avevano giubbotti di salvataggio. Quelli tra noi che potevano aggrapparsi alla barca sono rimasti in vita. I soccorritori (europei, ndr.) sono arrivati più tardi in aereo e hanno lanciato zattere di salvataggio, ma tutti erano in acqua e la barca si era già rovesciata”.
“Poche ore dopo, altri soccorsi aerei hanno lanciato altre zattere di salvataggio. Sulla nostra barca sono sopravvissute solo 55 persone. In molti sono morti, comprese famiglie e bambini. Avrebbero potuto essere salvati se i soccorsi fossero arrivati prima”.
E una donna si domanda: “Perché non ci hanno salvato? Abbiamo visto un aereo. Ci hanno dato delle zattere di salvataggio e abbiamo iniziato a salirci. Gridavo, chiedendo aiuto. Tutti in quella barca stavano cercando di salvarsi la vita. Ho perso mio marito, ma grazie a Dio sono ancora viva.
Non indossavo un giubbotto di salvataggio, ma c’era una donna accanto a me, che aveva solo una gamba, che non sapeva come usare il giubbotto salvagente e non sapeva nuotare. L’ho aiutata a indossarlo e sono riuscita a salvarmi la vita grazie a lei, aggrappandomi al suo salvagente. Alla fine sono entrata in una piccola zattera che l’aereo ci aveva lanciato e mi sono salvata”.
In base alle testimonianze raccolte, nonostante la richiesta di aiuto alla Guardia Costiera italiana, i soccorsi sarebbero arrivati troppo tardi, e le persone a bordo delle imbarcazioni sarebbero annegate cadendo in mare, molte delle quale non erano in grado di nuotare:
“Abbiamo lasciato la Libia in un canotto durante la notte. Siamo stati salvati dalla guardia costiera libica. Abbiamo chiamato le autorità italiane e ci hanno mandato i libici a riportarci indietro. Mentre stavamo navigando abbiamo avuto un problema al canotto, faceva molto caldo e si stava sgonfiando. A un certo punto il motore si è fermato. Sulla barca c’erano molti bambini e donne in cinta. Famiglie. Abbiamo lottato per sopravvivere.
Eravamo in acqua vicino ai corpi morti. L’Europa dovrebbe sapere cosa stiamo attraversando: non possiamo stare in Libia”, ripete uno dei superstiti che spiega quanto sia pericoloso restare in Libia:
“È molto pericoloso per noi. Sulla mia gamba sinistra, ho un colpo di pistola. Il mio amico mi ha aiutato a raccogliere i soldi per andare in Europa per trovare cure alla mia gamba. Mi avevano detto che avevo bisogno di 10.000 dinari libici. Non li avevo.
Questa è la mia storia, ma ci sono tante storie diverse qui. Non siamo criminali, non siamo ladri. Stiamo combattendo per sopravvivere. Mi sento molto triste e deluso. È doloroso. Ho perso tanti amici. Non riconosco più la destra e la sinistra.
Non so dove andrò domani. Abbiamo bisogno di aiuto, e siamo stati rinchiusi come dei prigionieri. Non so perché continuano a mandare le persone indietro in Libia. Stiamo scappando da qui. Non sto chiedendo al governo italiano di prenderci tutti, ma di non riportarci in Libia”.