“Vengono da tanto dolore. Il loro passato non è stato facile”. Il piccolo Arash ha nove anni, ma si comporta con tutta la serietà di un adulto. Si è offerto di farci da traduttore e ci sta raccontando la storia della famiglia che vive nel container accanto al suo.
Una giovane mamma, un papà e tre bambine. Sono afghani come lui, e come lui ‘vivono’ – o meglio, sopravvivono – in una vecchia fabbrica abbandonata di Bihac, una cittadina della Bosnia Herzegovina a pochi chilometri dal confine croato.
A dicembre nello stabile, conosciuto dai locali con il nome di Bira, c’erano più di 2.000 persone, tra cui 80 famiglie e 150 bambini. Sono fuggiti dalla Siria, dall’Iraq, dall’Afghanistan, e sperano di arrivare in Europa.
Alcuni sono in viaggio da mesi, altri da anni. Arash ci porta nel container dove dorme con la mamma, Nadia, e i suoi due fratelli: Ramesh, di cinque anni, e Tamim, di undici. Nadia ci porge del tè.
“Scusate, non ho niente da offrirvi”. Ci chiede scusa perché non può essere ospitale come vorrebbe, nonostante alla sua famiglia l’ospitalità non gliela offra nessuno. Guarda con orgoglio i figli che parlano un inglese perfetto, ma poi abbassa lo sguardo.
“Sono 8 mesi che non vanno a scuola”. Inizia a piangere, ha sacrificato tutto per dare un futuro ai suoi bambini, ma qui, al confine tra la Bosnia e la Croazia, quel futuro sembra troppo lontano. Arash si siede vicino alla mamma e senza dire niente le mette una manina sulla spalla.
In tutto sono 5.500 gli uomini, le donne e i bambini stipati in strutture squallide e sovraffollate in Bosnia. Tra il 2013 e il 2016 migliaia di migranti passarono dal confine ungherese, iniziando dalla Grecia ed attraversando Serbia e Macedonia.
Cercavano un po’ di sicurezza e la possibilità di una vita migliore in Europa. L’Ungheria, poi, ha alzato una barriera di filo spinato, i respingimenti si sono fatti più violenti costringendo le persone a trovare una nuova strada più a sud, in Bosnia.
Nel 2018 è stato registrato il passaggio di 24.067 migranti, rispetto ai soli 755 dell’anno prima. Da qui sperano di attraversare la Croazia e la Slovenia, dove inizia la zona di libera circolazione Shengen, per poi arrivare in Italia ed inoltrarsi verso nord.
Quando all’improvviso migliaia di rifugiati sono arrivati nelle loro piccole città, i bosniaci hanno risposto con empatia e solidarietà, “forse perché la Bosnia è da poco uscita da una guerra terribile o forse perché è un paese musulmano”, ci dice Andrea Contenta, un ricercatore indipendente specializzato in migrazioni.
Mentre la risposta da parte dei cittadini bosniaci è stata solidale, quella dell’Unione europea (fondata sui valori della dignità umana, della libertà, dei diritti umani, e dell’uguaglianza) è stata di chiusura e di violenza.
In quest’ultimo anno organizzazioni come Save the Children, Human Rights Watch e No Name Kitchen hanno denunciato migliaia di casi di violenza perpetrata dalla polizia croata.
“Ma questo non è un problema croato”, ci tiene a specificare Karolina Augustova, volontaria per “No Name Kitchen”, “è un problema dell’Unione europea”.
In un report pubblicato il 13 marzo, Amnesty International afferma che “I governi europei sono complici nei respingimenti sistematici, illegali, e frequenti […] di migliaia di richiedenti asilo in campi squallidi e non sicuri in Bosnia Herzegovina”.
Nonostante la violenza e l’abuso dei diritti umani, l’Ue continua a finanziare la Croazia: la commissione europea ha recentemente promesso 6.8 millioni di Euro per rafforzare la gestione delle frontiere esterne dell’Ue.
In questo modo i governi europei stanno alimentando una crescente crisi umanitaria ai confini dell’Unione e, con la loro passività, stanno permettendo l’uso della violenza contro i rifugiati, se non addirittura incoraggiandola. “Davvero, non pensavamo che in Europa succedessero queste cose”, racconta Hussein, scuotendo la testa.
“Come fanno a trattarci come animali? Siamo solo una famiglia, non vogliamo fare del male a nessuno”.
Hossein viaggia con sua sorella, sua moglie e la figlia Rimas, di sei anni. Sono scappati dall’Iran, dove venivano perseguitati perché appartenenti alla minoranza di etnia araba. Hanno impiegato due mesi per raggiungere la Bosnia, spostandosi sempre a piedi. Da qui hanno attraversato la frontiera croata, camminando di notte e dormendo nel bosco; una volta arrivati sono andati dalla polizia a chiedere asilo.
“Ci hanno portato in un posto isolato. Hanno rubato tutti i nostri soldi e mi hanno picchiato con i manganelli davanti a Rimas. Poi ci hanno spinto giù per una discesa e ci hanno detto di correre e di tornare in Bosnia”. Ora si trovano a Bihac; Rimas gioca a palle di neve con gli altri bambini, ma di notte non riesce a dormire e spesso si sveglia urlando.
Ma loro sono tra i più fortunati: l’Organizzazione Internazionale per la Migrazione (IOM) ha collocato una quarantina di famiglie in un piccolo albergo a Bihac. Farhad e i suoi bambini – Vala, dieci anni, Mohamad, sette, e Varia, cinque – vivono invece dentro la fabbrica abbandonata di Bira.
Arrivano dal Kurdistan e sono mesi che provano a raggiungere l’Europa. Durante il periodo natalizio, Farhad e i bambini uscivano tutti i giorni per andare a passeggio nel centro di Bihac. Farhad voleva che i bambini vedessero le luci natalizie, il mercatino e la pista di pattinaggio sul ghiaccio “per fargli pensare che sia come una piccola vacanza”.
A gennaio è stato il compleanno di Vala e lui le ha organizzato una festa. C’era una torta, dei cappellini rosa, e dozzine di bambini che le cantavano gli auguri. Sembrava una normale festa di compleanno, se non fosse che si celebrava dentro una una struttura tetra e buia e Vala poteva a malapena camminare perché le facevano male i piedi.
Qualche giorno prima, zaini in spalla, erano partiti verso il confine croato. Hanno camminato per venticinque ore, neve fino alle ginocchia, prima che la polizia li prendesse e li ributtasse in Bosnia. E così si sono ritrovati di nuovo a Bira, dove i bambini non possono andare a scuola, i bagni sono pochi e sporchi. Farhad è stanco, esasperato.
“Non è un posto per bambini, questo. Trattenere persone in questo modo è disumanizzante”, dice Augustova, la volontaria. “Non è normale che una famiglia rimanga in un posto dove non c’è acqua, servizi igienici, dove il cibo è scarso” concorda Contenta.
“Quando l’emergenza diventa uno stato permanente si regolarizzano le eccezioni. Per i cittadini si utilizza un standard ma per migranti se ne usa un altro”.
A Bira ci sono anche tanti uomini e ragazzi soli. Dormono in tendoni, ammassati in gruppi di cinquanta o addirittura sessanta. Wali Khan, un signore afghano che per anni ha fatto da interprete agli americani, è uno di loro. È partito da solo, lo ha fatto per le sue tre bambine.
“Voglio portare le mie figlie in Europa, perché in Afghanistan non possono studiare. Senza educazione vivranno al buio, saranno come cieche. Ma io voglio che vadano all’università e si laureino. Questo è il mio sogno”.
Wali Khan ha provato ad attraversare il confine croato tre volte, ma tre volte è stato respinto. La polizia lo ha picchiato e gli ha rotto il telefono, l’unico modo che aveva per parlare con sua moglie e le figlie. “Forse in Europa pensano che siamo cattivi. Ma non vogliamo niente, solo una chance. Una chance per far vedere chi siamo in realtà”.