Alle 10 di mattina di domenica 20 gennaio, un’imbarcazione con 100 persone a bordo che stava tentando di attraversare il Mediterraneo lancia un SOS ad Alarm Phone, il call center di volontari che raccolgono richieste di soccorso in mare da parte di migranti.
“Alle 11 – spiega Alarm Phone su Twitter – abbiamo ricevuto la loro prima posizione. Erano a 60 miglia al largo di Misurata (Libia), ma la situazione era calma e ci chiedevano di restare in stand-by, mentre tentavano di utilizzare un motore”.
La posizione del natante è tale per cui il personale di Alarm Phone decide di contattare la guardia costiera libica e di avvisare anche Roma e Malta. Queste ultime, conoscendo la posizione, scaricano immediatamente la responsabilità su Tripoli che però non risponde alle mail di Alarm Phone.
I migranti restano per ore in mare, a bordo sembra ci siano bambini di cui uno in condizioni gravi.
I numeri di telefono a cui la guardia costiera di Tripoli dovrebbe rispondere non sono funzionanti, ben sei più un altro fornito da Roma ad Alarm Phone. Nessuno risponde.
Solo nella notte l’intervento di palazzo Chigi che riesce a mettersi in contatto con la Libia sblocca la situazione: il cargo Lady Sharm, battente bandiera della Sierra Leone, raggiunge il barcone in avaria e preleva i migranti facendo rotta verso Misurata.
Le nazionalità dichiarate al momento dello sbarco da parte dei migranti sono: 57 provenienti dal Bangladesh, 38 dall’Iraq, 31 dalla Tunisia, 13 dall’Iran, 9 dall’Egitto, 2 dalla Russia, 2 dal Sudan, 2 dal Pakistan, uno dal Gambia.
Si è rischiata così una nuova strage in quel Mediterraneo che continua ad essere un cimitero dei migranti. Nei giorni scorsi 170 persone sono morte in due naufragi di gommoni avvenuti nel Mediterraneo. Un gommone è affondato a circa 45 chilometri a est di Tripoli: su 120 persone solo 3 sono sopravvissute. L’altro naufragio riguarda circa 53 persone morte nel Mare di Albora’n, nel Mediterraneo occidentale (solo un uomo è sopravvissuto, soccorso da un peschereccio di passaggio).
La zona Sar libica e le responsabilità di Italia e Malta
Era il giugno 2018 quando Tripoli annunciò l’iscrizione nel registro dell’Organizzazione marittima internazionale di una propria zona di Search and rescue (Sar). Larga quanto la costa libica, dalle spiagge di Zuara fino a quelle della periferia di Tobruch, profonda un centinaio di miglia. L’Europa, finalmente, potè tirare un corale e liberatorio sospiro di sollievo: non era più responsabile per quello che capitava in quelle acque.
A quasi un anno di distanza da quel giorno, dopo che le mancanze libiche e le tante relative morti sono diventate evidenti, si può affermare che la “zona Sar libica” è in realtà un fazzoletto di mare dove si susseguono mere operazioni di polizia, spesso condotte con metodi brutali e dove è molto, troppo facile morire.
Quella nuova Sar libica faceva comodo soprattutto a Italia e a Malta, ossia i Paesi più direttamente esposti agli arrivi di migranti provenienti dal nord Africa.
Da allora i Maritime rescue coordination center (Mrcc) di Roma e della Valletta hanno preso a deviare gli avvisi di distress (segnalazione di imbarcazione in difficoltà) su Tripoli. In questo modo, nessuno dei rispettivi governi è in realtà informato su quanto accade in quelle acque.
L’entrata in vigore della nuova zona Sar – con il trasferimento di tutti i poteri alle due Guardie Costiere libiche (una dipende dal ministero della Difesa, l’altra dall’Interno) – ha avuto come effetto collaterale quello di desertificare quel cruciale tratto di mare.
Anche i mercantili e i pescherecci – spaventati dall’ipotesi di ritrovarsi nei guai – evitano di transitare in quelle acque.
L’Italia, come membro dell’Unione Europea, ha contribuito, e tuttora contribuisce, al sostegno materiale e al funzionamento della Sar libica e della guardia costiera. Durante il governo Gentiloni, Roma ha consegnato alla guardia costiera di Tripoli, guidata allora dal colonnello Massoud Abdelsamad, cinque motovedette militari per attività di Search and Rescue, ricerca e salvataggio.
Dodici motovedette sono state donate dal governo italiano lo scorso agosto, con un decreto di consegna alla Guardia costiera libica e due milioni di euro per la manutenzione.
Ma le “donazioni” fatte alla Libia rientravano già in un piano molto più vasto realizzato dal suo predecessore Marco Minniti.
Già nel 2017, infatti, si parlò di una operazione ampia – costata anche 800 milioni di euro e che già scatenò fortissimi dubbi – che prevedeva la cessione alla Libia di imbarcazioni, ma anche di ambulanze, jeep, automobili, telefoni satellitari, mute da sub, bombole per l’ossigeno, binocoli diurni e notturni.
Durante il mandato del ministro dell’Interno Marco Minniti, inoltre, tra i vari piani bilaterali ed europei vennero stanziati 41 milioni di euro (fondi Ue) per la costruzione di un vero Mrcc a Tripoli e per il monitoraggio delle frontiere, a nord e a sud. Di quel nuovo Mrcc, però, non si hanno notizie ufficiali: l’ultima posizione conosciuta del Centro di soccorso libico era individuata in un ufficio nella sede dell’aeronautica presso l’aeroporto di Tripoli. Così appare nei registri dell’Imo, dove è stata iscritta la Sar.
Da mesi, le pur frequenti segnalazioni di barconi in avaria non vengono condivise ma lavorate direttamente dalla guardia costiera libica. E così tutta la questione si riduce a un inseguimento privato, che può finire in qualsiasi modo: con l'”arresto” dei fuggitivi e la riconsegna ai centri di detenzione; con il loro salvataggio fuori dalla Sar libica, a Lampedusa o a Malta; oppure nel modo peggiore, con una tragedia silenziosa, senza tracce né testimoni.
Quanto al place of safety, la Libia, visti i conflitti interni in corso e la condizione generale del Paese spaccata nei due governi contrapposti, non ne ha uno. Lo ha detto chiaramente l’Onu, attraverso l’Unhcr, l’Alto commissariato per i rifugiati. E recentemente lo ha ammesso anche l’attuale ministro degli Esteri del governo Conte, Enzo Moavero Milanesi.
Affidare i salvataggi alla Guardia costiera libica di uno Stato che è sull’orlo del fallimento ormai da diversi anni – e che manda i sindaci di alcune cittadine (veri e propri capi-tribù) a negoziare con i rappresentanti delle istituzioni straniere – non può non ricadere in una possibile violazione dei diritti dell’uomo.
Perché se il luogo di sbarco è la Libia, significa che i migranti saranno riportati dove subiscono torture, trattamenti inumani e degradanti, riduzione in schiavitù.
Il concetto di “luogo sicuro” non può essere oggi limitato al mero portare le persone sulla terraferma.
Il diritto del mare deve essere interpretato alla luce di tutti gli altri obblighi internazionali ad esso connessi: il “luogo sicuro” non è solo la terraferma ma è un luogo in cui la vita e la sicurezza delle persone sbarcate non sono messe in pericolo.
Questa interpretazione è data dallo stesso Comitato di facilitazione dell’Organizzazione marittima internazionale in una risoluzione che però non è vincolante. Sulla stessa linea è una raccomandazione del Consiglio d’Europa.
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