Il sole è caldo nonostante sia febbraio, in via Roma così deserta ci si potrebbe girare un film western. Lampedusa, per chi la conosce in versione estiva, è irriconoscibile. Questo fazzoletto di terra si è staccato dalla zolla africana e ha creato un ponte al centro del Mediterraneo dove tante anime, diverse e spesso lontane tra loro, hanno trovato rifugio.
Una di queste è Mediterranean Hope, progetto delle chiese evangeliche che da ormai 5 anni ha come avamposto un appartamento a poche centinaia di metri dal porto di Lampedusa. Questo ufficio ha visto passare tante persone, soprattutto giovani e giovanissimi, che si sono messi a disposizione per l’accoglienza dei migranti e la documentazione di quello che non andava bene.
In uno dei pochi bar aperti di Via Roma incontro Alberto Mallardo, che proprio per questo progetto vive a Lampedusa da 4 anni. Con lui ci siamo visti e parlati altre volte, è una di quelle persone che chiami se devi confermare una notizia accaduta da queste parti.
“Sappiamo che il 21 dicembre è partito un gommone da Zuwara, a bordo c’erano un centinaio di persone di cui 84 eritrei, altri del Bangladesh e forse degli egiziani. In totale c’erano 20 donne e 5 bambini. Ci hanno avvertito dei familiari delle persone che erano a bordo chiedendo se avevamo informazioni ma noi non sapevamo nulla. Abbiamo contattato tutti i porti italiani ma non risultano cittadini eritrei arrivati, non sappiamo che fine abbiano fatto”, racconta.
“Abbiamo parlato anche con la Open Arms, che in quei giorni era nel Mediterraneo Centrale e proprio il 21 dicembre ha soccorso 313 persone. Nemmeno loro sanno nulla. Anche nei giornali libici e dalla guardia costiera di Tripoli non ci sono notizie di soccorsi effettuati in quei giorni. Ovviamente la paura è che il mare li abbia inghiottiti”.
L’esordio della conversazione è un macigno sullo stomaco. Sapevo che la comunità eritrea in Italia stava cercando un centinaio di persone partite prima di Natale. Ero stato contattato il 26 dicembre perché ero a bordo della Astral e viaggiavamo accanto alla Open Arms. Verificammo ma non risultò nulla tra le segnalazioni e noi eravamo troppo lontani per pensare di recuperare un gommone di massimo 10 metri in un pezzo di mare di centinaia di miglia.
Nonostante conoscessi la storia, ho percepito Alberto come un pugile veloce che entra con ganci e diretti da tutte le parti e tu non riesci a vederli. Ogni parola era un colpo e quando ha chiosato su “inghiottiti” è arrivato un gancio e sono andato giù ko.
Ci riperdiamo un attimo, anche il pugile è stanco, e mi racconta di come è cambiato il suo lavoro negli ultimi anni. “Nel 2015 arrivavano 23.000 persone all’anno, ora ne arrivano 3.000. Non è solo una questione di numeri ma di come è cambiata l’isola”, osserva.
“Quando si arrivava qui per tutti era l’inizio di una nuova vita, non erano morti né durante il viaggio in Africa né in mare. Questo era il biglietto per l’ingresso in Europa. Oggi è diventata una frontiera, un luogo di respingimento. Piano piano sta abbandonando il suo ruolo di àncora di salvataggio, di approdo sicuro in mezzo al Mediterraneo, di porta d’Europa. Vivere qui oggi è più difficile. Sapere che muoiono centinaia di persone a pochi chilometri da qua ti da un senso d’impotenza profondo”.
La militarizzazione è sotto gli occhi di tutti: quella che era la perla del Mediterraneo è diventata una grande caserma. D’inverno poi, nella desolazione, è ancora più evidente. Anche il bar dove stiamo mangiando in poco tempo ha visto una sfilata di divise e gradi diversi. Il ridursi degli sbarchi di migranti non ha visto la riduzione del personale di sicurezza, creando un sovra-numero di presenze rispetto alle necessità reali.
“Nonostante Lampedusa sia diventata marginale nella attività di Sar (search and rescue), nell’ultimo anno sono aumentati gli sbarchi spontanei”, sottolinea Alberto. “La maggioranza di questi arrivano dalla Tunisia, che si trova qua vicino. Dal 2018 a oggi a Lampedusa ci sono stati circa 8/9mila sbarchi, è una rotta che c’è da decenni ed è completamente diversa da quella che parte dalla Libia. Sono piccole barche di legno, a bordo non hanno tantissime persone e arrivano direttamente qua o in Sicilia”.
Il pugile ha ripreso la danza, mentre camminiamo su via Roma per andare verso l’ufficio di Mediterranean Hope mi balla attorno per disorientarmi e mi racconta di una realtà molto lontana da quella descritta dal regista Gianfranco Rosi nel documentario Fuocoammare.
“Il fenomeno migratorio è sempre stato gestito con due chiavi di lettura: quella umanitaria e quella securitaria. Proprio a Lampedusa abbiamo visto spesso come queste due letture si siano intrecciate l’uno con l’altra: da un lato i salvataggi della Guardia Costiera, che tutti elogiavano, e dall’altro lato le navi militari, che avevano come obiettivo quello di proteggere i confini e non le persone”.
“Con le ong è stato tutto molto chiaro, sin dall’inizio la popolazione le accolse con grande entusiasmo. I lampedusani sono gente di mare e aprivano le porte a queste persone accorse da tutte Europa per soccorrere le persone in mare. C’era poi invece la parte istituzionale che le ha sempre viste con grande sospetto che nel corso del tempo si è tramutata in una tensione sempre maggiore, culminata con il sequestro di Iuventa. Io ero presente e fu una rappresentazione della frontiera e della forza dello Stato. Trenta mezzi tra blindati e macchine della polizia, decine di agenti in assetto antisommossa che delimitavano la zona attorno alla nave. Scene che a Lampedusa non si sono mai viste”.
Il sole ha perso un po’ della sua intensità, l’illusione della primavera è svanita e l’inverno, seppur gradevole, è tornato. Nell’ufficio del progetto delle chiese evangeliche incontro Silvia Turati, una ragazza conosciuta due anni fa in Libano mentre seguivo il progetto dei corridoi umanitari.
Quando vedo Silvia ho bisogno di qualche secondo per mettere a fuoco. Non che non l’abbia riconosciuta, ma, se il cervello fosse un computer, lei sarebbe archiviata nella ripartizione “Libano-Siria” e non “Lampedusa”. Parliamo sempre di persone migranti, ma ovviamente sono contesti totalmente diversi. Silvia mi racconta che proprio per questo si trova nell’isola, per “staccare” da Beirut e dai campi profughi che girammo insieme e dove lei lavora da oltre due anni e mezzo. Il burnout in questo lavoro è sempre dietro l’angolo e cambiare ambiente, staccare, riposarsi è fondamentale. Purtroppo però il mio interesse per il progetto dei corridoi umanitari la riporta, almeno con la testa, in Libano.
“Dall’inizio del progetto messo in campo dalla Federazione delle Chiese Evangeliche e dalla Comunità di Sant’Egidio, abbiamo portato in Italia 1.403 persone, in totale sicurezza e con un sistema d’accoglienza e integrazione che tutela le persone. Credo che sia un grande merito di questo progetto”, dice.
Il sorriso di Silvia non lascia dubbi, è un merito. “La fase di selezione è molto lunga. Mentre siamo nei campi profughi per dare assistenza medica incontriamo le ong he lavorano in loco e le famiglie profughe. Da li raccogliamo le richieste e iniziamo a fare tanti incontri con chi chiede di entrare nel progetto. Dobbiamo capire se sono nelle condizioni di ambientarsi e integrarsi con le comunità che le accolgono”.
Il bello di questo progetto, aggiungo io, sta proprio nel doppio lavoro. Da una parte le famiglie siriane che sono state costrette a scappare e dall’altra delle comunità pronte ad accoglierle. Mentre beviamo un caffè, approfitto per chiedere come stanno le famiglie che ho conosciuto nel campo di Tel Abbas: “Alcune di loro sono in Italia, soprattutto al nord. Stanno bene e sono integrati”, mi risponde Silvia.
A questo punto però il suo sorriso fa una leggera inflessione, cambia, si sforza. “Nonostante il progetto sia stato rinnovato e la Farnesina abbia messo a disposizione altri mille visti umanitari, abbiamo iniziato ad avere problemi con il Ministero degli Interni. Verso la fine del 2017 le risposte alle nostre richieste sono state più lente, a volte non accettate. Questo è l’unico modo per far arrivare le persone in sicurezza, l’alternativa è la fuori”.
La chiosa è lapidaria e riporta a dove siamo, al centro del Mediterraneo su una piccolissima isola di 20 chilometri quadrati che negli ultimi anni è stata un punto di snodo fondamentale per le rotte migratorie. Il caffè è finito da un pezzo e le temperatura scende. Resta giusto il tempo di correre verso l’Isola del Conigli per gustarsi un tramonto mozzafiato e ricordarsi che Lampedusa, oltre a essere “la porta d’Europa”, ne è anche “la perla”.
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