Nessuna possibilità di lasciare la Libia: così, Abdulaziz, un somalo di 28 anni, si è cosparso di benzina e si è dato fuoco, bruciando davanti a tutti nel centro di detenzione per migranti Triq al Sikka di Tripoli.
Abdulaziz ha rinunciato alla vita dopo che i funzionari dell’Unhcr (l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite) gli avevano comunicato che non era possibile lasciare il Paese per una vita migliore.
E proprio di Libia si parla in queste ore con il caso di 100 migranti salvati da un mercantile del Sierra Leone sotto indicazione della guardia costiera libica, e ora diretti verso la Libia. Molti di loro minacciano di togliersi la vita a bordo del cargo, piuttosto che tornare in Libia.
“Abdulaziz era stato nel centro di detenzione per nove mesi e si sentiva completamente senza speranza”, racconta chi lo ha conosciuto.
“All’inizio lo ha fatto segretamente, poi ha cominciato a urlare e la gente è accorsa per aiutarlo, ma era troppo tardi”, ha detto un detenuto che ha assistito alla scena.
L’Unhcr, però, riporta una versione diversa, e sostiene che per Abdulaziz fosse prevista un’evacuazione in Niger il mese prossimo, anche se non è chiaro il motivo per cui non gli fosse stato comunicato.
Nei giorni successivi alla morte del migrante somalo, gli altri rifugiati hanno raccolto piccole somme di denaro, inviate dalle loro famiglie, per comprare caffè, biscotti e candele, e celebrare la sua vita.
Tuttavia, i loro pensieri si sono rapidamente rivolti a chi potrebbe ripetere lo stesso gesto di disperazione.
Migliaia di rifugiati e migranti sono attualmente in condizione di detenzione indefinita dal Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale (DCIM) della Libia. Molti sono stati rimpatriati in Libia dopo che le imbarcazioni su cui si trovavano in viaggio verso l’Italia, sono state intercettate dalla guardia costiera libica.
Tra di loro ci sono persone provenienti dalla Somalia, dall’Eritrea o dal Sudan; paesi in guerra o dove vigono dittature: sono Paesi dove si verificano gravi violazioni dei diritti umani.
Tra i centri della capitale della Libia, Tripoli, Triq al Sikka, che ospita oltre 400 persone, viene regolarmente descritta da rifugiati e migranti come una delle peggiori, a causa dei livelli di abbandono e gli abusi che vengono compiuti al suo interno.
“È proprio come l’inferno”, racconta un ex detenuto. “Un abominio”.
Il quotidiano arabo Al Jazeera ha intervistato sei attuali ed ex detenuti a Triq al Sikka. Alcuni dicono di essere rimasti fino a un anno, mentre altri sono fuggiti durante i recenti scontri in città.
I detenuti raccontano di aver trascorso ogni giorno al buio, con le guardie che non si avvicinano a loro per paura di contrarre malattie.
“Il giorno e la notte sono uguali per noi”, dice un uomo.
Negli ultimi mesi la situazione ha raggiunto un livello massimo di crisi. I detenuti hanno riportato che da tre settimane non è stato somministrato alcun farmaco a chi è ammalato di tubercolosi, questo perché il personale dell’International Rescue Committee (IRC), che ha fornito assistenza medica sin dall’inizio di settembre, è preoccupato di contrarre la malattia.
Thomas Garofalo, direttore nazionale dell’IRC Libya, ha detto che il personale è stato “sopraffatto”.
“Abbiamo lavorato con il Centro nazionale per il controllo delle malattie per documentare e diagnosticare casi di tubercolosi, e stiamo cercando di farlo, ma le condizioni nel centro non sono adeguate, questo è il problema”.
L’IRC ha diagnosticato 25 casi di tubercolosi nel centro di detenzione, e quelli che sono stati ritenuti contagiosi sono stati rimossi e isolati, ma questo processo è stato sospeso la scorsa settimana dopo che lo staff è risultato positivo alla tubercolosi.
Sono consapevoli che la malattia potrebbe ora diffondersi.
“Il problema non è ingestibile, ma la Libia non può o non vuole gestirlo e abbiamo bisogno che altri paesi forniscano aiuto e forniscano asilo, se necessario, o almeno collaborino con le autorità libiche affinché possiamo avere un trattamento più umano di queste persone”, racconta il personale IRC.
Nel centro di detenzione per migranti Triq al Sikka più di 200 uomini e ragazzi adolescenti sono stipati insieme in una sala buia. Quasi 230 donne e bambini sono in un’altra aerea, più aperta.
Le persone malate sono tenute con tutti gli altri.
I detenuti sono principalmente eritrei e somali, ma ci sono anche etiopi, sudanesi, yemeniti, siriani e sud sudanesi.
Tra di loro ci sono circa 30 coppie sposate. Mariti e mogli possono incontrarsi e parlare per circa 10 minuti a settimana: “In quel momento, le guardie si trovano a circa un metro da te”, ha commentato un detenuto. “Hai paura di toccare la tua compagna perché alla polizia non piace”.
Abdulaziz, l’uomo somalo che si è suicidato, era sposato e sua moglie è rimasta al centro.
Secondo il racconto degli attuali ed ex detenuti, ci sono stati almeno 20 morti a Triq al Sikka quest’anno.
Alla domanda su quale fosse la cosa peggiore che hanno visto a Sikka, gli ex detenuti erano unanimi: è stato vedere le guardie vendere i detenuti ai contrabbandieri.
“Questi libici pensano solo a te come a una possibilità di guadagno”, hanno concluso.
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