Non è un periodo facile per essere un’organizzazione non governativa. Lo sanno bene Medici Senza Frontiere e Sos Meditarrenée, gestori di quella nave Aquarius che, a giugno, si è vista negare l’accesso ai porti italiani dal Governo italiano.
Ma anche le olandesi Lifeline e Seefuchs, e tutte le altre organizzazioni che negli ultimi mesi si sono sentite paragonate agli scafisti e ai trafficanti di esseri umani.
A rincarare la dose è stato recentemente Alessandro di Battista, ex deputato e big del Movimento Cinque Stelle intervistato da Lilli Gruber nella prima puntata, lunedì 10 settembre, del programma Otto e Mezzo, su La7.
Di Battista ha parlato in videocollegamento dal Guatemala: da mesi, infatti, il politico pentastellato è lontano dall’Italia, impegnato in un lungo viaggio in America. Negli ultimi mesi aveva comunicato soltanto tramite i profili social o sul Fatto Quotidiano, commentando di tanto intanto l’attualità italiana.
Il suo commento, stavolta, dal caso della nave Diciotti l’ha portato a parlare di come l’Italia gestisce l’accoglienza.
“Non credo più che l’accoglienza sia la risposta per i disastri e per il dramma dei flussi migratori, ma l’unico modo è affrontarne le cause”, ha commentato Di Battista. “L’accoglienza oggi è assistenzialismo. Africa e Sud America hanno bisogno di sovranità, autonomia, indipendenza, non di assistenzialismo”.
Un discorso che richiama lo slogan semplicistico, molto amato dalla Lega di Salvini, “aiutiamoli a casa loro”. E che non piace a quelle Ong , ora trattate come criminali dal Governo, che “a casa loro”, ovvero nei Paesi d’origine dei migranti, lavorano da anni.
TPI ne ha discusso con Nunzia Gatta, fondatrice della sezione napoletana dell’onlus Gruppo Missione Alem, che opera in Etiopia.
“Le Ong sono le uniche che concretamente, a casa loro, camminano insieme ai più poveri nei campi della formazione, della sanità, dello sviluppo sostenibile e della promozione umana”, spiega.
Cresciuta in quel rione Luzzatti di Napoli raccontato da Elena Ferrante nel suo L’amica geniale, a Nunzia, undicenne, è stato negato il diritto all’istruzione: nel rione all’epoca mancava la scuola media e la ragazza è stata costretta a lasciare i libri e a cominciare a lavorare.
Tornata sui banchi più tardi con sofferenza e determinazione e ottenuta la laurea, nel 1969 si trova ad insegnare all’Università di Asmara, in Eritrea. “Avevo sempre sognato l’Africa e nel ’68 avevo guadagnato abbastanza per permettermi di andarci”, ricorda oggi. “Lì ho trovato i migliori studenti della mia vita e anche il compagno con il quale ho continuato a vivere e scoprire il mondo”.
Dopo un lungo girovagare nel Corno d’Africa Nunzia e il marito hanno deciso di tornare. “L’Etiopia ci è rimasta nel cuore e da sempre ci siamo attivati per dare una mano ai più poveri, puntano all’istruzione spesso negata, come a me da piccola, alle bambine e alle donne”.
Dal 1997 lavorano con la onlus Gma, che oltre ad organizzare il sostegno a distanza dei bambini etiopi svolge in Etiopia opere di utilità sociali come la costruzione e il mantenimento di pozzi, scuole e presidi sanitari, oltre a formare insegnanti e personale medico attraverso le attività di volontariato di professionisti del settore.
A beneficiarne sono soprattutto donne e bambini dai 4 anni in su, ma anche ragazzi abbandonati.
L’Etiopia descritta da Nunzia è “un Paese in cammino di antichissima civiltà, dove convivono religioni e etnie diverse, con un alto tasso di crescita demografica e sempre a rischio di conflitti etnici”.
Il Paese dove, a sud, nuove spirali di violenza inter-comunitarie hanno costretto alla fuga circa 1 milione di persone e dove qualche mese fa appena era stato dichiarato lo stato di emergenza.
Ma è anche la nazione del nuovo primo ministro Abiy Ahmed, che ha compiuto importanti passi per lasciare definitivamente alle spalle il difficile passato dopo anni di proteste, tensioni etniche, stati d’emergenza e forme di censura.
“C’è una discreta crescita economica anche grazie ai sostanziosi investimenti della Cina…e la pace con l’Eritrea ha il sapore di un miracolo”, spiega Nunzia.
A usare, quasi per riappropriarsene, il termine “aiutarli a casa loro” è Nunzia stessa, ma per sottolineare tutti i traguardi ottenuti dal lavoro dei volontari della onlus in Africa.
“I benefici sono visibili: i nostri bimbi sostenuti a distanza sono più di mille e oltre il 70 per cento è ben istruito e inserito bene nel suo contesto sociale e economico. Tra gli ex-ragazzi di strada, prima poverissimi, grazie al sostegno a distanza dei donatori troviamo laureati e piccoli imprenditori.”, racconta.
La onlus di cui è a capo vuole però allo stesso tempo evitare slogan e pregiudizi. “Nessuno mette a rischio la propria vita e quella dei figli se può sopravvivere nel proprio bel paese. Ero a capo di un campo profughi in Albania durante la guerra nel Kosovo, osservavo e mi dicevo che come madre anch’io mi butterei su un barcone per dare da mangiare ai miei figli”.
Nunzia rigetta le accuse secondo le quali il loro lavoro sarebbe mero assistenzialismo o, peggio, neocolonialismo.
“Noi non facciamo assistenzialismo. Noi investiamo in risorse umane giovani con l’istruzione, costruendo aule e tirando fuori la dignità propria di ogni essere umano che non deve preoccuparsi dei bisogni primari come la fame – di cibo e di istruzione”, dice.
“Valori come la sovranità, l’autonomia, l’indipendenza e addirittura la democrazia sono vuote, se non si superano questi bisogni”, spiega Nunzia. “Spesso notiamo un bimbo con la testa sul banco, e non perché non ama ascoltare il maestro. Sicuramente è malato, ha fame e ha sete”.
Eppure, la retorica leghista sulle Ong – sostenuta anche dalle recenti affermazioni di Di Battista – sembra sortire i propri effetti. “Facciamo fatica a trovare nuovi sostenitori, soprattutto perché vogliamo contare sul volontariato, la generosità genuina e la trasparenza. Non sprechiamo risorse in pubblicità e alti costi di gestione”.
“Il nostro motto è ‘camminare insieme’, evitando elemosina a pioggia e cercando di partire dalle richieste locali. Non sono aiuti umanitari ma condivisione di risorse e responsabilità”. Ma, aggiunge, “spesso è difficile far capire a chi ha fame e vive nel bisogno che noi ‘non troviamo soldi sugli alberi'”.
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