Non dobbiamo occuparci delle migliaia di persone che sbarcano sul nostro continente perché ci servono, ma perché è giusto. Non dobbiamo respingerle perché non possiamo permetterci di aiutarli tutti, ma perché farlo è razzista.
Qui non si vuole discutere la soluzione del problema dell’immigrazione ma semplicemente incitare a uno sforzo collettivo di ristabilire la coerenza, anche lessicale, delle posizioni in campo nel dibattito sul tema dell’accoglienza.
È vero, l’Europa sta invecchiando più rapidamente di quanto la sua popolazione si stia riproducendo e morirà sotto il peso di un debito pensionistico insostenibile se non troverà il modo di riequilibrare la propria bilancia demografica, ma questo fatto non ha nulla a che vedere con il dare asilo a chi lo richiede.
Rifiutarlo, nascondendosi dietro numeri e proiezioni economiche, è un atteggiamento razzista, a prescindere dall’orientamento politico.
Razzismo è negare che ogni essere umano, a causa della sua provenienza o condizione, abbia pari dignità e diritti e debba ricevere le medesime opportunità.
È razzista sostenere che essere nati in un’area del mondo povera o violenta sia un problema individuale e che queste persone farebbero meglio a restare a casa propria, quasi fosse una condanna ineluttabile.
Bisogna innanzitutto riconoscere quanto quello migratorio sia un fenomeno essenzialmente umano. In The American West as Living Space, lo storico statunitense Wallace Earle Stegner sostiene che gli uomini hanno sempre associato la migrazione alla fuga dall’oppressione, da leggi e snervanti coercizioni.
Razzista è allora usare termini ingannevoli come respingimento in luogo del più appropriato deportazione e fingere che affidare queste persone a dittature o cleptocrazie non rappresenti una violazione dei diritti di quegli individui tanto quanto rispedirli in paesi impegnati in conflitti internazionalmente riconosciuti.
Una vittima della fame soffre meno o muore forse meglio di chi perisce in guerra? È allora razzista discriminare il migrante economico dal rifugiato, chi merita la protezione internazionale da chi può farne a meno, e tanto più grave è che sia una legge a permetterlo.
Il padre dell’indipendenza indiana, Gandhi, sosteneva che la povertà è la peggiore forma di violenza, ma l’economia, come la definì il filosofo britannico del periodo vittoriano e razzista convinto Thomas Carlyle, è una “scienza triste”.
Perché paesi ricchi di straordinarie risorse umane, naturali ed economiche presentano redditi pro capite così bassi? È un problema di distribuzione geografica della ricchezza, proprio come, all’interno delle nostre società, esiste un problema di distribuzione del reddito tra classi.
Si può allora negare che l’arrivo sulle coste del continente più ricco del mondo di gruppi di persone composti in maggioranza da maschi adulti non sia un tentativo di sopravvivenza dovuto alle condizioni di vita nei paesi di origine, alle difficoltà incontrate e ai soprusi subiti durante il viaggio?
L’UNHCR, l’agenzia Onu per i rifugiati, parla di stupri, furti, vessazioni, discriminazioni e sfruttamento di tipo schiavistico subiti dai migranti dalla partenza all’arrivo in Europa.
La violenza conclamata su queste persone – tra cui figurano anche donne, bambini e minori non accompagnati – subita prima, durante e dopo le traversate del deserto e sul mare, deve suscitare una ribellione della coscienza tale da respingere un linguaggio mistificatorio che punta solo a nascondere inaccettabili soluzioni di carattere razzista.
Da Leopoldo II del Belgio in poi infatti, la storia del vecchio continente ha già mostrato quanto discriminazioni mascherate da ragionati programmi economici abbiano portato a commettere crimini contro l’umanità in nome del bene pubblico.
Luigi Einaudi, nel suo Prediche inutili del 1959, si chiedeva come si possa deliberare senza conoscere. Ma come si può comprendere davvero una posizione politica se la sua idea di fondo viene artatamente nascosta da numeri e considerazioni statistiche?
Un diritto non prevede compromessi: si può garantire la dignità di queste persone oppure negarla, qui come nei paesi di origine, ma questo si chiama razzismo.
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