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Nel giorno in cui gli elettori M5S sono chiamati al voto di fiducia verso il capo politico Luigi Di Maio sulla piattaforma Rousseau, TPI ha intervistato Paola Nugnes, senatrice del Movimento Cinque Stelle.
Nugnes è tra le voci che si sono espresse in modo più critico verso la gestione del partito da parte di Di Maio, il quale ha incassato invece l’appoggio di Beppe Grillo e di Davide Casaleggio.
Il voto sulla piattaforma è solo uno strumento di ratifica. Non c’è dibattito, la domanda è binaria: sì o no. Ed è una domanda retorica. Tranne in casi estremi prevede sempre un plebiscito.
Gli affezionati, che vogliono sostenere il Movimento Cinque Stelle al governo, voteranno sempre in quella direzione. Gli altri si asterranno. Non parteciperanno proprio alla tornata.
Questo si è verificato già molte volte.
Io sarei stata felicissima di aver messo su una piattaforma capace di contraddirmi, perché avrebbe dato senso alla vera democrazia partecipata che volevo instaurare. Invece c’è stata una chiusura e un blindare lo strumento.
No, non è il modo. È stato fatto anche in maniera molto precipitosa, prima di sentire i parlamentari, gli europarlamentari, prima di tastare il polso anche nei territori, che danno dei segnali molto forti di necessità di un cambiamento.
Non chiedono la testa di Di Maio, si è voluto personificare e concentrare su Di Maio tutta la questione, che in realtà non è su di lui. La questione è organizzativa e strutturale, poi ha delle conseguenze anche sui risultati. Però questo non si è voluto ascoltare.
Ieri hanno fatto le 4 di mattina al dibattito, ma non è uscita neanche nei telegiornali la posizione difforme da quella dettata dalla struttura. È un sistema estremamente blindato, dove c’è una dittatura della maggioranza.
Questa maggioranza è condizionata dal fatto che tutto viene deciso da una sola testa. Chiunque voglia partecipare, anche con le migliori intenzioni, è sotto la soggezione di dover far parte di questa maggioranza.
Ma la dittatura della maggioranza non è democrazia. La democrazia è quando si riescono a tenere in conto tutte le parti che compongono il proprio corpo, anche in parlamento.
Io per esempio faccio parte ancora del gruppo Cinque Stelle che sostiene la maggioranza, ma sono stata sollevata dal lavoro parlamentare come è successo in Commissioni riunite XIII e VIII sul decreto sblocca cantieri, dove sono stata sostituita da un’altra collega che sicuramente avrebbe votato in modo conforme sempre e comunque.
Quando non si tiene in debito conto chi fa parte della propria maggioranza si sta imponendo una parte, e questo non fa parte della democrazia.
Dipende molto dal fatto che non esistono strutture intermedie di rappresentanza di tutte le parti. Chi dirige non è destituibile, non ci sono assemblee nazionali. Non c’è il corpo, c’è solo la testa, che comanda su tutto: dall’emendamento alla scelta della lista, alla domanda su Rousseau, anche a decidere se una votazione va rifatta. Questo è esattamente l’opposto di quanto il Movimento si era proposto di realizzare con la democrazia diretta.
È stato chiesto, anche dalle parti “dissidenti”, di non arrivare al voto su Rousseau, perché sarebbe stata solo una ratifica inutile e che il punto era discutere di tutta la struttura, non della sola posizione di Di Maio.
Lui copre due ruoli inconciliabili dal punto di vista costituzionale, anche se la prassi corrente con Berlusconi ci ha insegnato che questo può accadere (ma noi l’abbiamo sempre contestato). Ossia che il capo politico del gruppo parlamentare sia anche un soggetto importante nell’esecutivo.
La distinzione dei poteri è fondamentale, ma per dare forza anche alla proposta. Il parlamento, se viene lasciato lavorare in una dialettica forte anche col proprio esecutivo, può portare a segno degli obiettivi più alti. Nel momento in cui invece tutto si concentra nella posizione di uno o di pochi, e non si fa lavorare il parlamento, si indebolisce anche la posizione dello stesso esecutivo, perché non ha una contrattabilità con l’altra parte.
Mi spiego meglio, in Consiglio dei ministri se Luigi rappresenta il tutto, mostra all’altro che, sfondato lui, si è ottenuto tutto. Se Luigi avesse potuto farsi forza di una controparte parlamentare che per la Costituzione deve essere vigile sull’operato dell’esecutivo, avrebbe potuto far intendere al contraente di minoranza che sfondato lui avrebbe trovato il parlamento, e che quindi sarebbe stato inutile andare oltre un certo limite, perché il parlamento lo avrebbe fermato.
Invece Salvini ha capito che sfondato il limite posto da Di Maio non avrebbe trovato ostacoli, perché lui gliel’ha assicurato più volte. Di Maio è profondamente convinto che per governare bisogna controllare il parlamento, ma questa è una convinzione errata, fondata su presupposti lontani dallo Stato di diritto e dalla Costituzione.
No, io già nel 2014 quando si fece il direttorio lo valutai come una tappa che poteva essere utile ad arrivare a un’organizzazione interna più democratica. Ma se queste figure vengono scelte sempre dal sistema centrale, è a lui che rispondono. È sempre la stessa voce che viene amplificata.
Fico già fu coinvolto, però se poi viene messo nell’impossibilità di fare effettivamente la differenza non c’è granché. Bisognerebbe che fossero delle figure elette e anche destituibili.
Non va bene arrivare sulla piattaforma e dire: questi sono i 5 che abbiamo deciso. Sì o no?
Questo poteva essere un primo passo nel 2014, ma non oggi.
Di tornare indietro sullo statuto del 2017, che ha abiurato lo statuto del 2009. Da lì partire con una fase costituente, stabilire una carta di valori e principi non contrattabili, perché non bastano solo gli obiettivi. Un esempio: se io dico che sono a favore delle fonti rinnovabili, ma poi per raggiungere questo obiettivo mi dici di sparare in fronte a un petroliere, allora non sono d’accordo. Come ha detto Fico, dobbiamo capire chi siamo, quali sono i nostri principi, che sono poi quelli costituzionali.
Se per fare il reddito di cittadinanza, che era dovuto al popolo italiano, abbiamo dovuto cedere alla chiusura dei porti e a tenere delle persone in mare in ostaggio, in condizioni di disagio inimmaginabile, lo trovo atroce.
Non credo che si possa pensare che per ottenere un diritto si possano mettere i piedi sulla testa di qualcun’altro.
Il Movimento deve chiarire a se stesso cosa è, ma mi sa che non c’è questa intenzione. Si parla, si dicono tante cose, ma alla fine non si esce dallo staff della Casaleggio Associati, che in maniera contestabile e indiscutibile decide per tutti.
Per me non cambia niente, semplicemente non si è affrontato il problema. Io ormai ho una posizione radicale, che ho dichiarato e che è frutto di un percorso graduale durato anni.
Fare una votazione online su chi espellere, senza distinzioni, ma solo con un “sì” o un “no” era sicuramente qualcosa di grave, ma era limitato all’organizzazione interna di un partito.
Chiedere invece sulla piattaforma di votare “sì” o “no” all’autorizzazione a procedere per Salvini, ha una ricaduta sul paese molto più grande e un’incidenza devastante sullo Stato di diritto, se gestita male.
Se tutto questo non è ristrutturabile io ne prendo atto e non posso più esserne parte.
Mi dicono: allora esci dal Movimento. Ma dove vado? Non c’è un partito in grado di cogliere le istanze che una volta erano del Movimento. Non c’è più il Movimento come era una volta.
No, ognuno è in un punto diverso di questo percorso.
Finora non ci siamo organizzati perché nessuno di noi crede di poter imporre su un altro una linea. C’è rispetto reciproco del percorso interiore fatto.
Io penso di essere, tra coloro che sono ancora dentro, la più esterna. Molti altri sono in posizioni di mediazione, ancora con la speranza di poter cambiare dall’interno.
Per quanto mi riguarda penso invece, con questa ultima esperienza, che non ci sia più nessuna possibilità di poter cambiare dall’interno. Spero di essere smentita, sarei felicissima di poter ritrovare il mio Movimento, perché all’interno ci sono ancora tante energie positive, che potrebbero fare molto per il paese. La paura di distruggere tutto le tiene silenti, ma non so quanto potranno durare.
Ho visto molta gente allontanarsi in questi anni, perché ha compiuto prima di me questo per corso. Tanti non si sono ricandidati. Se io non fossi stata così vicina a Roberto Fico non mi sarei ricandidata, e assieme a me altri.
Se avessi saputo tutto questo invece non mi sarei ricandidata. Mi chiedono: ma allora perché non dai le dimissioni? Io credo nella dialettica e credo, dagli stimoli e dalle risposte che ricevo, di rappresentare una parte consistente ma minoritaria della nazione.
La narrazione del nostro paese è sicuramente peggiorata, ma proprio per questo bisogna resistere: le voci minoritarie che nel frastuono dicono qualcosa di diverso sono necessarie.
Non ha molto senso farlo, ma non lo escludo del tutto. Molti non votano proprio perché non intendono partecipare a questo meccanismo.
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