“Sono sempre stato come le oche selvatiche, sin da bambino – spiega Paolo Rumiz – Quando cambia la stagione comincio a grattarmi le penne e sento bisogno di partire. Così mi sono detto: qualsiasi mestiere farò, cercherò di piegarlo a questa necessità vitale”.
È per questo motivo che si definisce soprattutto viaggiatore e solo dopo giornalista. Triestino, classe 1947, con i suoi reportage e libri ha scritto pagine memorabili della narrativa di viaggio italiana.
Lui però vola basso. “Ho spazzato i pavimenti sino a tardi”, dice riferendosi agli anni da cronista prima di diventare inviato speciale del Piccolo di Trieste e firma di Repubblica. “Ho cominciato a viaggiare per lavoro solo a 45 anni, ancor più dopo i 50. A quel punto la mia vita ha avuto un’accelerazione”.
In realtà non si viaggia per capire il mondo, ma per capire sé stessi. È un continuo lavoro di superamento dei limiti, dei muri interiori, dei miserabili pregiudizi costruiti con i libri e la propria cultura. Viaggiando trovi sorprese che ti spiazzano e ribaltano i luoghi comuni. Ma non so se riuscirò a capirmi prima di tirare le cuoia.
A Parigi per studiare il francese, avevo 16 anni. Mi sono ritrovato a percorrere la città instancabilmente. Per me Parigi è rimasta quella, la Parigi degli anni Sessanta. Il primo viaggio fuori dall’Europa invece è stato in Turchia, con una spedizione alpinistica sulle montagne nella costa del Mar Nero. Sarà stato il 1965.
Come terre dico le Repubbliche baltiche, la Scozia e il mondo Egeo. Come città Alessandria d’Egitto, Sarajevo e Berlino. E ho dimenticato Istanbul, un luogo superbo. In generale ho amato molto l’Atlantico e la Karelia, un territorio russo al confine con la Finlandia, così ricco di laghi e fiumi che è più facile spostarsi in canoa che a piedi. E poi i Balcani, la Carpazia, le montagne tra il Pakistan e l’Afghanistan. E le Ande: mio padre è nato in Argentina.
La vita è talmente corta che tendo a non tornare negli stessi posti. E poi temo di vederli cambiati: è come trovarsi con una ex fidanzata che non hai sposato e di cui hai un ricordo cristallizzato nel tempo. A Jesolo ho conosciuto un tedesco premiato con una medaglia perché è tornato per 50 anni nello stesso campeggio. Questo modo di attraversare la vita penso sia follia pura. O una forma di saggezza, in cui però non mi ritrovo.
La Francia dalle radici contadine, falcidiata dalla globalizzazione. Un tempo nelle campagne c’era chi viveva con tre vacche e faceva la zuppa di cipolla in casa. A meno di non essere un viaggiatore sopraffino e sapere esattamente dove andare, ormai questa vecchia Francia è difficilissima da trovare. E così la vecchia Grecia.
L’Alaska. Ho passato alcuni giorni nel villaggio più settentrionale degli Usa. È stata un’esperienza del terzo tipo: la sera era impossibile rientrare a casa senza fucile perché era pieno di orsi bianchi.
Le metropoli indiane. New Delhi, ma ancora di più Mumbai, sono i più grandi raddensamenti di popolo che abbia mai visto.
Sì, anche di due mesi. Ho viaggiato tanto in Scandinavia alla fine del secondo anno di università. E poi dall’estremo nord dell’Europa sino a Istanbul con i mezzi pubblici, per 35 giorni. Ma non sempre i viaggi più lunghi sono quelli più interessanti. Quello che conta sono le persone che si incontrano, non i luoghi.
Nella memoria ho una folla di personaggi straordinari. Un prete russo ortodosso, elemento di punta delle forze speciali della Russia in Cecenia. Un pescatore bretone, sfuggito più volte al naufragio. Un monaco benedettino coltissimo, che si divertiva a suonare la chitarra elettrica con le band rock più importanti del mondo. Una spagnola, che mi ha portato a camminare per una notte intera sulla Sierra de Guadarrama con la luna piena.
Un italiano che sino a 35 anni ha lavorato da impiegato alle poste, e poi per dare senso alla sua vita ha studiato ortopedia e con la Croce Rossa ha messo in piedi un magnifico ospedale in Afghanistan. E poi un generale bosniaco che ha difeso Sarajevo: mentre gli facevo l’intervista faceva la verticale, mi rispondeva a testa in giù.
Non sono mai stato a Macerata. E nemmeno ad Ascoli Piceno, eppure la mia prima morosa era di là. In Europa penso di aver visto tutte le capitali tranne Bratislava. Forse perché troppo vicina a Vienna.
Molto sofferto. Sono sempre in bilico tra la rabbia e l’incantamento perché vedo quanto gli italiani siano lontani dall’amare la propria terra. Pochi Paesi al mondo hanno saccheggiato così il proprio territorio.
Considero l’Europa mia madre. È uno straordinario addensamento di umanità, la vicinanza della diversità è il suo elemento chiave. Negli altri continenti non è così: basta un giorno in America per rendersi conto di essere europeo. E io sono inguaribilmente europeo.
Ne ho nostalgia. L’atto pur spiacevole della demarcazione garantisce le diversità, valore aggiunto tra di noi, ed è elemento di ordine nel mondo. Nello stesso tempo le frontiere sono il migliore antidoto alla rinascita dei muri. Non abbiamo mai avuto così tanti problemi in Europa da quando abbiamo creduto nella filosofia no border.
Quando la Slovenia è entrata nell’Ue è stato per me un grande momento di felicità, ma avevo paura che la caduta del confine mi facesse passare la voglia di viaggiare. La Russia è la Russia perché è diversa, questo è la catapulta per andarci. E poi che gusto c’è a viaggiare, se non ci sono frontiere e passaporti da mostrare?
Quello per entrare a Berlino Est. Essere perquisito sino alle mutande da isterici ufficiali della DDR è stato un brivido meraviglioso che ancora ricordo, ma assolutamente senza paura. Mi sono detto: “Al massimo mi mettono dentro e ho qualcosa da raccontare”.
La paura, intesa non come codardia ma sana percezione del pericolo, è un sentimento che ha salvato l’uomo per millenni. E infatti il coraggio vero è di chi conosce la paura. Noi europei ne abbiamo completamente perso la percezione. Me ne sono reso conto in Afghanistan, dove sono stato tra l’autunno e l’inverno del 2001, subito dopo l’11 settembre, quando c’erano i bombardamenti americani. Ero incantato dal paesaggio con neve, montagne, deserti, carri armati arrugginiti. Come un idiota passavo attraverso i pericoli senza rendermene conto.
Diario dell’Asia. Dal Caucaso alla Cina del conte Jan Potocki, un polacco vissuto nel Settecento. Il più gran libro di viaggio del ventesimo secolo penso sia La polvere del mondo di Nicolas Bouvier. Per il cinema dico Il giro del mondo in 80 giorni del 1956, di Michael Anderson.
È diventato sempre più leggero. Ho cominciato con la valigia e le automobili, sono arrivato allo zainetto di sei chili e i mezzi pubblici. Ma soprattutto ho rallentato l’andatura e cambiato il modo di vestire: non puoi imporre il tuo abbigliamento, ma nemmeno pretendere di mimetizzarti perché vieni subito smascherato. Il vestire è un sapiente compromesso tra il rispetto della cultura degli altri e la dichiarazione della propria identità.
Ma scherziamo? Viaggiare con i propri figli è una meraviglia, bisogna solo ricalibrarsi. Quando avevano tre anni e mezzo ho portato i miei nipotini su un fiume in Svizzera: abbiamo fatto la legna, pescato, acceso il fuoco, cucinato. La sera mi chiedevano la fiaba ed erano orgogliosi di essere senza genitori. Io me li annusavo, me li coccolavo.
Il viaggio perfetto, quello che mi ha cambiato la vita, è stato quando mio figlio a 16 anni mi ha chiesto di partire con me. Siamo andati in bicicletta da Trieste a Vienna, avevo cinquant’anni, è stata una rivoluzione totale: di come scrivo e di come guardo il mondo. C’è stato un momento in cui dovevamo decidere se partire o meno con il telefonino. Lui mi ha guardato. E mi ha detto: “Papà, ma siamo uomini o commercialisti?”.