La fine dell’autoproclamato Stato islamico in Siria è ormai vicina.
Dopo cinque anni di guerra le forze curdo-arabe delle SDF (Forze democratiche siriane) hanno ripreso il controllo della provincia di Deir el Zor, nel sud-est della Siria, e si apprestano a riconquistare gli ultimi chilometri quadrati ancora in mano all’Isis.
I jihadisti, dopo essere stati cacciati dalla roccaforte di Hajin, si sono rifugiati nei villaggi circostanti radunandosi a Baghouz, diventato teatro dell’ultima battaglia contro lo Stato Islamico.
Per sapere come procede lo scontro finale e cosa significa la sconfitta dell’Isis in Siria TPI ha contattato telefonicamente Lorenzo Orsetti [chi era], combattente italiano nelle fila delle SDF.
Come procede la battaglia per riconquistare Baghouz?
Io adesso mi trovo ad Al Hasaka (nel Rojava, ndr), sono appena tornato da Baghouz. In battaglia non hai la possibilità di riposare né di lavarti, per cui le squadre al fronte si danno il cambio ogni 15 giorni.
La riconquista della zona di Deir el Zor è stata dura. Sembrava una striscia di terreno così piccola e facile da riconquistare, invece riprenderla è costato caro. Quando arrivai qui in Siria un anno e mezzo fa non pensavo che avrei combattuto l’Isis in quella particolare regione. Raqqa stava cadendo, io ero ancora in addestramento e tutti mi dicevano che in un paio di mesi avrebbero preso Deir el Zor, ma così non è stato.
Ho preso parte alla riconquista della provincia fin dall’inizio: l’offensiva è partita dal deserto di Hajin e sta per terminare a Baghouz. All’inizio è stata davvero dura. Hajin era la roccaforte dell’Isis e ogni volta che noi attaccavamo loro rispondevano con contrattacchi in cui molti dei nostri morivano.
Ricordo che tutti mi sconsigliavano di andare a Deir el Zor: una volta in un attacco dell’Isis sono morti 40 combattenti e anche la prima volta che sono andato nel deserto (di Hajin, ndr) hanno spazzato via la linea del fronte in un sol colpo. Hajin è stata la battaglia più dura, poi è andato tutto un po’ meglio.
Ad Al Susah ci sono stati parecchi scontri e alla fine era rimasta solo Baghouz da riconquistare. Parliamo di una zona grande quanto un quartiere chiusa tra noi combattenti e l’Eufrate. I miliziani dell’Isis sono intrappolati in poche case, saranno a stento due chilometri, sono asserragliati lì senza cibo né munizioni, non hanno neanche armi buone.
Un tempo non era così: i miliziani avevano le armi della Turchia, adesso hanno solo esplosivi e armamenti di poco conto. Non hanno più le forze per un vero contrattacco: in pochi giorni dovrebbe finire tutto.
Quindi anche l’Isis è finito?
L’Isis come Stato islamico è finito, anche se i miliziani più importanti sono già scappati in Turchia o a Idlib.
La versione statuale dell’Isis è stata sconfitta ed è un grande risultato, ma l’ideologia sopravvive. La stessa Idlib è piena di jihadisti di diverso orientamento che alle volte si combattono, ma la mentalità rimane ed è sempre la stessa, patriarcale e fondamentalista.
L’ideologia dell’Isis sopravviverà anche dopo che Baghouz sarà presa. Sarà una battaglia che ci porteremo avanti per anni.
Qual è la strategia dell’Isis nel compiere i suoi attacchi?
I miliziani dell’Isis sono molto ingegnosi, hanno ingegneri militari addestrati in Occidente che riescono a fare tanto con poco. I loro droni sono da pochi soldi, non sono certo come quelli della Turchia, ma li hanno modificati per lanciare bombe. In quest’ultima fase hanno usato anche tunnel e mine per cercare di rallentarci ed attaccarci.
L’Isis poi usa i civili come scudo umano, a differenza nostra. Per entrare a Baghouz abbiamo usato gli air strike degli americani, ma nell’ultima fascia di case non potevamo farlo perché c’erano troppe persone che abbiamo prima dovuto evacuare.
Cosa pensi del ritiro degli Usa dalla Siria?
In molti ci hanno criticato per aver accettato il supporto Usa, soprattutto i filo-Assad (il presidente siriano, ndr), ma gli Stati Uniti erano l’unico alleato possibile per il Rojava. La regione autonoma è circondata da nemici e ha bisogno di sostegno, ma le condizioni imposte dalla Russia per proteggere gli abitanti della regione erano eccessive.
Mosca voleva che tutto il Rojava fosse riassorbito dalla Siria, non voleva più che usassimo le bandiere né altri simboli della regione, rinunciando a tutto quello che abbiamo costruito fino ad oggi.
Il ritiro Usa però è stato inaspettato, gli americani avevano speso molte risorse nel supportare i curdi. Magari è solo un’uscita di Trump.
So che vogliono tenere in Siria un piccolo contingente, ma tutto dipende da dove vogliono stanziarlo: lasciarlo a Deir el Zor è inutile, se invece decidessero di posizionarlo al confine con la Turchia potrebbe essere un deterrente per Ankara.
La Turchia pensi attaccherà?
La Turchia ha sempre detto di volerci attaccare: è contraria alla rivoluzione del Rojava, per questo siamo sotto una minaccia costante e ci stiamo organizzando per resistere come meglio potremo, anche se non è facile. Ankara ha un vero esercito, non è come l’Isis.
Inoltre la Turchia sotto Erdogan è diventata uno Stato ultra-nazionalista e religioso e il presidente ogni volta che attacca i curdi guadagna voti, soprattutto in vista delle elezioni amministrative del 31 marzo.
La guerra però costa e la Turchia al momento sta vivendo una forte crisi economica. Nei mesi passati Erdogan ha provato ad ammassare le truppe al confine per costringere i curdi a tornare sotto Assad ma non ha funzionato, per cui potrebbe compiere un attacco lampo di penetrazione per minacciarci ancora.
Questa rivoluzione con tutti i suoi difetti è un piccolo gioiello per il Medio Oriente, è davvero progressista, soprattutto a livello umano, e per questo va difesa.
Sei in Siria da un anno e mezzo. C’è un evento che ti ha colpito particolarmente?
La battaglia con la Turchia, che è stata la mia prima esperienza di guerra. Di soldati ne abbiamo visti pochi, c’erano per lo più aerei e droni.
Ho visto tanti compagni cadere, tanti civili morti nel peggiore dei modi, corpi carbonizzati…Le esperienze più belle che ho avuto sono quelle a livello umano con i miei compagni e i civili. Con la morte hai a che fare ogni giorno, ma è la guerra.
Perché hai deciso di andare in Siria?
Volevo vedere la rivoluzione con i miei occhi, capire come si fa, cosa riesce e cosa no. Inoltre mi sembrava la cosa giusta: c’erano diversi ideali che mi attraevano e nei quali mi riconosco, come quelli di autogoverno e organizzazione dal basso.
Cosa pensi dei 5 ragazzi che rischiano di diventare Sorvegliati speciali?
Per ora non voglio tornare in Italia, ma è assurdo quello che è successo a qui ragazzi. È una situazione assurda e ingiusta, probabilmente li colpiscono perché sono impegnati politicamente. Sono tanti i combattenti tornati in Italia e a cui non è stato fatto niente.
Io mi trovo molto bene in Siria: qui mi sento utile e credo di star facendo qualcosa di profondamente giusto. Voglio continuare il mio lavoro in questa regione: ci sono tanti programmi a livello civile e progetti da portare avanti. I curdi adesso avrebbero bisogno di periodo di pace duraturo per usare i fondi che riceviamo solo per progetti civili.