Aprile 2019. Sono passati 40 anni dalla vittoria della rivoluzione islamica in Iran e dalla proclamazione della Repubblica guidata dall’ayatollah Khomeini, ma cosa resta oggi del sogno della Guida Suprema e cosa vuol dire essere un cittadino iraniano nel 2019?
Per cercare di avere una visione dell’Iran dall’interno, andando oltre le informazioni reperibili sui media occidentali, TPI ha intervistato Darya (nome di fantasia), una ragazza iraniana che vive e lavora a Teheran.
“Quando ho vissuto all’estero ho capito quanto sbagliata sia l’idea che avete dell’Iran in Occidente”: sono queste le sue prime parole nel raccontare il suo paese.
Parlare di Iran è sempre complicato, a qualsiasi latitudine. Il conflitto ancora in corso dopo 40 anni tra Teheran e Washington ha inciso profondamente sui rapporti della Repubblica islamica con il resto del mondo. Ma se nei primi anni della rivoluzione una certa diffidenza e una chiusura nei confronti del paese degli ayatollah poteva esser giustificata, 40 anni dopo un simile comportamento è controproducente, e mette in luce un’evidente – e in alcuni casi volontaria – miopia.
“Una volta una ragazza mi ha chiesto se fossi contenta di indossare una maglia rossa, perché credeva che in Iran l’unico colore permesso fosse il nero. Rimasi sbalordita. Non capivo perché pensasse una cosa simile”.
A contribuire in maniera significativa alla percezione in parte errata di quanto accade in Iran, secondo Darya, sono soprattutto i media, che forniscono informazioni distorte e semplicistiche, veicolando una visione letteralmente in bianco e nero del paese persiano.
I diritti delle donne
Non tutto ciò che sappiamo sull’Iran ovviamente è errato. I diritti delle donne, per esempio, sono molto limitati e la vita per una ragazza è più difficile rispetto a quella di un uomo, nonostante i passi avanti fatti dall’inizio della rivoluzione ad oggi.
“La prima cosa a cui i non-iraniani pensano quando si parla di diritti delle donne è il velo. È vero, se sono in pubblico non posso andare a capo scoperto, ma non è questo il problema più grande”, racconta Darya.
“Prima di tutto bisogna capire che nella società orientale le donne sono incoraggiate a ‘comportarsi bene’, come ‘signore’, a non parlare mai dei problemi familiari (da quelli più banali, fino alle violenze domestiche) per non finire sulla bocca di tutti. È un po’ come in Occidente, quando insegnano alle donne che devono trovare un uomo ricco che le mantenga. Anche nella cultura orientale ci sono degli stereotipi di genere, ma questa mentalità sta cambiando rapidamente nel mondo e spero che accada lo stesso in Iran”.
Dopo 40 anni dalla Rivoluzione, le donne hanno conquistato pian piano maggiori libertà, ma la strada da percorrere è ancora lunga.
“I diritti delle donne in Iran non sono protetti e le attiviste si battono ogni giorno perché ciò cambi. Stiamo lottando per essere libere dall’hijab (velo che copre capo e spalle, ndr), per avere più donne in politica e perché ci siano delle leggi che ci proteggano. Vogliamo gli stessi diritti degli uomini”.
Raggiungere questi obiettivi però non è facile, soprattutto a causa del sistema di leggi misto in vigore in Iran e dell’impossibilità di modificare le norme della sharia, considerate sacre.
“Ti faccio un esempio: il sistema di leggi della Repubblica stabilisce che la donna è libera di fare ciò che vuole, ma un articolo della sharia prevede che il marito possa imporre il proprio volere su certe questioni, per cui la donna deve avere il suo permesso per viaggiare da sola o per accettare un lavoro. Sempre meno uomini mettono in pratica questa norma per controllare le mogli, ma siccome si tratta di una legge che viene direttamente da Dio non c’è nulla che possiamo fare per cambiarla”.
Le parole di Darya da una parte esprimono tutta la frustrazione di fronte ad una legge che non può essere modificata, ma dall’altra mettono in luce un cambiamento nella componente maschile della società, meno propensa ad usare il potere di controllo previsto dalla sharia.
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Un altro segno di come la società iraniana stia cambiando sono i cosiddetti “matrimoni bianchi”.
“I centri di ricerca e l’anagrafe del Parlamento usano la parola matrimoni bianchi per indicare quelle coppie che vivono insieme pur non essendo sposate. Agli occhi di un occidentale andare a vivere con il proprio partner prima del matrimonio è normale, ma per noi non è così. È un diritto che abbiamo dovuto conquistare, anche se le coppie che convivono sono giudicate immorali dall’autorità”.
In Iran non esiste una legge che vieta esplicitamente a due persone non sposate di vivere insieme, ma la convivenza prima delle nozze è considerata una stigma sociale e punita anche severamente dalle autorità. Nonostante ciò, il numero di matrimoni bianchi in Iran è in aumento, segno di un cambiamento inarrestabile a cui le autorità dovranno prima o poi arrendersi.
Le proteste e il diritto di critica in Iran
“La Costituzione iraniana garantisce il diritto a protestare e nel paese ci sono spesso manifestazioni, soprattutto a Teheran, ma nel momento in cui i media occidentali iniziano a coprire le proteste l’autorità interviene e reprime ogni forma di dissenso. È in momenti come questi che ci rendiamo conto di quanto la presenza di media indipendenti che sfidino la censura dell’autorità siano fondamentali per la democrazia”.
“Anche la libertà di critica ha dei limiti: esprimere un parere negativo sul presidente o sui parlamentari non è un problema, ma chiunque osa criticare la Guida suprema o la religione è punito severamente”.
Il diritto di manifestare in piazza e di criticare quindi esiste, ma il prezzo da pagare può essere molto alto, come dimostra il report di Amnesty International che evidenzia come nel solo 2018 siano state arrestate più di 7mila persone tra manifestanti, giornalisti, studenti, ambientalisti, operai, difensori dei diritti umani, avvocati, attiviste per i diritti delle donne e delle minoranze e sindacalisti, molto spesso in modo arbitrario.
Le autorità, sempre secondo la Ong, hanno anche fatto ricorso alla violenza per disperdere i manifestanti, usando proiettili veri, gas lacrimogeni e cannoni ad acqua.
L’accordo sul nucleare, il rapporto con gli Stati Uniti e la crisi economica
Quando il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha stracciato l’accordo sul nucleare firmato nel 2015 dal suo predecessore ha inferto un duro colpo ad un’economia già fortemente danneggiata da anni di sanzioni e ha inasprito ancora di più i rapporti – già molto tesi – tra Usa e Iran. Facendo tra l’altro il gioco di quella parte di società più conservatrice che non ha mai voluto scendere a patti con il “Grande Satana”.
“Dopo l’abbandono di Washington dell’accordo l’economia è crollata drasticamente, portando ad un’inflazione del 30 per cento. Ovviamente a soffrire maggiormente sono state le famiglie più povere: il costo dei prodotti di base è triplicato, mentre il salario dei dipendenti pubblici non è cresciuto in proporzione all’aumento del prezzo dei beni di prima necessità”.
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“Però è giusto dire che la crisi economica iraniana non è solo colpa delle sanzioni americane, ma anche della corruzione che c’è nel paese. Con la fine dell’accordo sul nucleare però il valore del rial iraniano è crollato del 300 per cento in un solo anno. Chi ha votato per Trump negli Stati Uniti ha influito sulle nostre vite”.
Il presidente americano ha presentato l’abbandono dell’accordo come una vittoria, come il simbolo della riaffermazione degli Stati Uniti sulla scena internazionale, promettendo di difendere l’Occidente dalla “minaccia” iraniana e di far cadere il “malvagio” regime degli ayatollah.
Le sue decisioni però hanno danneggiato la credibilità e il potere del presidente Rouhani, considerato più “moderato” di altri e rieletto nel 2016 proprio perché era riuscito a mettere fine alle sanzioni americane. Inoltre hanno rafforzato proprio quella parte della società più conservatrice che Trump ha promesso di combattere (e che forse ha volutamente avvantaggiato).
I falchi “stanno approfittando della decisione del presidente americano”, spiega Darya. “Slogan come ‘il grande Satana’ o ‘morte all’America’ sono tornati di moda e quello che raccontano i media è che il voltafaccia americano era prevedibile. Gli Usa hanno tradito lo Scià in passato, per questo la Repubblica islamica di Khomeini non ha mai confidato nell’America e ha interrotto ogni rapporto fin dal primo giorno della proclamazione della Repubblica”.
“Poi, 36 anni dopo, il presidente Rouhani si è seduto allo stesso tavolo con Washington e che cosa è successo? Gli Stati Uniti si sono tirati indietro, dimostrandoci che abbiamo sempre avuto ragione su di loro. Trump è il peggior presidente possibile per gli Stati Uniti. Ha rovinato la vita degli iraniani e l’economia del nostro paese”.
L’imposizione delle sanzioni non ha avuto un impatto solo economico, ma anche politico. Le proteste del 2009 per la vittoria del presidente Ahmadinejad, accusato di aver manipolato i risultati, hanno portato molti iraniani a votare per Rohuani nel 2012 e nel 2016, come la stessa Darya ha fatto.
“Ho preso parte all’Onda verde, speravo di poter usare gli strumenti democratici a mia disposizione per aiutare il mio paese, ma anche le elezioni, mezzo tipicamente democratico, sono state manipolate dalla dittatura per mantenere il controllo del potere. Nel 2012 non ho votato, ma l’ho fatto nel 2016 per eleggere Rouhani e sostenere l’accordo con gli Stati Uniti. Il presidente ha dimostrato che potevamo fidarci di lui”.
Nonostante gli sforzi di Rohuani e del suo ministro degli Esteri, l’accordo sul nucleare si è trasformato in un fallimento e le politiche estere degli Usa hanno messo non solo a repentaglio l’equilibrio internazionale, ma hanno anche reso ancora più difficili le condizioni di vita delle fasce più deboli della popolazione iraniana.
La nostalgia dello Scià
“I giovani iraniani come me provano nostalgia per l’era dello Scià. Non abbiamo mai vissuto quegli anni, ma i nostri genitori continuano a lamentarsi della situazione attuale, soprattutto di quella economica, e ci raccontano di quando erano giovani e guadagnavano 16mila rial, potevano andare a Londra con poco e non avevano problemi con il visto”.
“Adesso invece ci sono le sanzioni, la crisi economica e il passaporto iraniano in molti Stati non è valido”, racconta Darya.
“Ho un profondo rispetto per tutti coloro che hanno lottato per la Repubblica e per la fine della monarchia nel 1979, sentivano che i loro diritti e le loro libertà erano state violate e hanno combattuto per una vita migliore. Ma quello che hanno ottenuto non è una vera democrazia, anche se l’Iran è anche molto diversa dalla dittatura dell’Arabia Saudita”.
L’isolamento internazionale, la restrizione delle libertà, la sharia e la crisi economica hanno fatto nascere in molti ragazzi un sentimento di nostalgia per gli anni precedenti alla Rivoluzione del 1979, un’epoca di cui i suoi giovani sostenitori non hanno memoria, ma che rivivono attraverso gli occhi dei loro genitori.
Si vedono spesso foto degli anni della monarchia che ritraggono donne senza velo e vestite all’occidentale, cinema aperti e feste in luoghi pubblici, in diretto contrasto con le immagini che ci giungono dall’Iran attuale.
Quello che però non si vede in quegli scatti che tanto fanno indignare l’opinione pubblica estera e che hanno plasmato un sentimento di nostalgia per un’età dell’oro mai esistita è la repressione dello Scià e della SAVAK, la polizia segreta iraniana, le grandi disparità sociali, la povertà delle fasce più deboli della popolazione e la svendita dei beni della nazione agli “alleati” americani.
Se nel 1979 gli iraniani hanno deciso di ribellarsi forse gli anni dello Scià non sono così splendenti come sembra a chi ne invoca il ritorno, esasperato da una realtà che ha disatteso i sogni di molti di coloro che lottarono per un Iran migliore.
La vita sociale
In Iran bere alcol è proibito, così come fare uso di droghe o anche solo organizzare una festa. La realtà però è ben diversa.
“In Iran sono stata a molte feste: c’è chi affitta un locale e un dj per una serata e chi porta vino o del liquore fatto in casa”, racconta Darya.
La Repubblica condanna comportamenti considerati immorali, ma li tollera nel privato per sua stessa sopravvivenza. La popolazione iraniana è composta per lo più da giovani sotto i 30 anni privi di reali diritti politici e costretti a fare i conti con la crisi economica e la mancanza di lavoro. Permettere loro di avere delle relazioni sociali “normali” nel privato, lontano dagli occhi del pubblico, è una valvola di sfogo per evitare che la loro insoddisfazione si traduca in protesta contro il potere.
“Noi iraniani abbiamo gli stessi cellulari che avete voi in Occidente, gli stessi sistemi operativi, vediamo anche le stesse serie tv e gli stessi film. Dobbiamo solo pagare molto di più per aggirare le sanzioni”, spiega Darya ridendo.
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L’Iran è un paese dalle mille contraddizioni, con una dimensione pubblica e una privata continuamente in lotta tra di loro. Ma se la prima finora ha imposto con la forza le sue leggi, controllando ogni aspetto della vita dei cittadini, le crepe nel muro che divide pubblico e privato sono sempre di più e diventano via via più difficili da nascondere.
Le nuove generazioni chiedono più libertà, lavoro, la fine della crisi economica e dell’isolamento internazionale. I problemi che il paese deve affrontare sono ancora tanti e agli occhi di un occidentale l’Iran rimane uno Stato retto da un potere religioso e repressivo che oltre a governare con il pugno duro i suoi cittadini rappresenta una minaccia per l’equilibrio internazionale.
La realtà, come sempre, è molto più complessa, ma non per questo impossibile da capire. Forse è giunto il momento di toglierci le lenti in bianco e nero con cui continuiamo a guardare l’Iran per vedere i suoi veri colori e cercare di comprendere le diverse sfaccettature di una società così complessa, ma che non possiamo continuare ad ignorare.