Il governo dell’India non esita a sfruttare l’occasione dello scontro con la Cina per compattare l’opinione pubblica interna e coprire la dubbia gestione della crisi COVID-19, ma il livello delle ostilità potrebbe restare tutto sommato contenuto, nonostante le recenti e sanguinose violenze al confine, grazie alla capacità di Delhi e Pechino di rinunciare a una visione “o bianco o nero” e agli interessi economici di entrambi i Paesi. Le dinamiche tra le due superpotenze e il possibile ruolo dell’Europa e dell’Italia nella vicenda non sono semplici da decifrare: TPI ha intervistato Stefania Benaglia, ricercatrice associata dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), esperta di politica in India e Asia meridionale e di relazioni tra l’Unione europea e Nuova Delhi, per approfondire un momento di forti attriti nella regione.
Le nuove tensioni tra India e Cina in Ladakh orientale hanno provocato la morte, nella notte tra il 15 e il 16 giugno, di almeno 20 soldati indiani e un imprecisato numero di vittime da parte cinese nel peggior scontro registrato alla frontiera dal 1975, avvenuto allora in un’altra regione contesa. Il confine tra Cina e India non è definito ma segue una linea di demarcazione lunga oltre 3.380 chilometri, intervallata dai territori di Nepal e Bhutan. Pechino e New Delhi hanno combattuto una guerra nel 1962 proprio a causa delle varie dispute sulla frontiera, un conflitto tuttora aperto, vista la mancanza di un trattato di pace tra i due Paesi, i cui militari non di rado si fronteggiano lungo la convenzionale “Line of Actual Control (LAC)”, che segna lo spartiacque tra i territori controllati dall’una e dall’altra potenza.
Il vero e proprio corpo a corpo tra le truppe indiane e cinesi ha avuto come teatro la valle di Galwan, una zona da dove in passato Pechino aveva ritirato i propri militari, complice l’apparente disinteresse mostrato da New Delhi per l’area. La situazione è mutata però con l’annuncio da parte del governo guidato dal premier Narendra Modi di una serie di nuovi progetti infrastrutturali: l’India prevede infatti di realizzare oltre una sessantina di nuove strade nella zona entro la fine del 2022, una delle quali passa proprio vicino alla valle, collegandola con la base aerea di Daulat Beg Oldi, inaugurata lo scorso ottobre, e con il capoluogo Leh. Anche la Cina ha mostrato un rinnovato interesse per l’area negli ultimi tempi, disponendo la costruzione di varie arterie viarie nella zona.
La ricostruzione offerta dal ministero degli Esteri indiano e non confermata dalla controparte cinese riferisce di un accordo raggiunto tra le due potenze all’inizio di giugno per una riduzione della presenza militare nell’area, dopo un mese di incidenti e provocazioni da ambo i lati della frontiera. “I comandanti sul campo si sono incontrati regolarmente per attuare questo accordo durante l’ultima settimana”, si legge nella nota diffusa dal governo di New Delhi. “Nonostante alcuni progressi, la parte cinese ha cercato di erigere una struttura nella valle di Galwan sul nostro lato della LAC”. Per le autorità indiane, con la presunta violazione degli accordi, Pechino avrebbe superato una vera e propria linea rossa. Ma questo non spiega il livello di violenza raggiunto.
A cosa possiamo attribuire l’escalation degli scontri in Ladakh tra Cina e India? Di solito le rispettive truppe si limitano a un confronto muscolare ma senza vittime, cosa è cambiato stavolta?
“E’ da un mese che la situazione è peggiorata, aumentando le tensioni nell’area, il confronto era iniziato fin dalla prima metà di maggio, anche se limitato a poco più di qualche provocazione da ambo i lati della frontiera. I dissidi avevano raggiunto un punto tale da far intervenire le rispettive autorità in vista di una de-escalation, tanto che sembrava di essere sulla traiettoria opposta. In questo senso, quanto accaduto (nella notte tra il 15 e il 16 giugno – ndr) è stato un evento inatteso”.
E’ evidente che questi meccanismi di de-escalation non hanno funzionato, nemmeno ai più alti livelli. Dopo il cosiddetto stallo di Doklam del 2017, che per 73 giorni rischiò di riaccendere il conflitto sino-indiano al confine con il Bhutan, i due Paesi avevano ricostruito a fatica un rapporto di fiducia, istituendo varie sedi di confronto proprio per evitare nuovi attriti: cosa non ha funzionato negli ultimi tre anni? L’escalation è legata alle recenti politiche indiane nell’area o anche a fattori esterni?
“Al momento, viste le limitate informazioni e la parzialità delle contrapposte ricostruzioni restiamo nell’ambito delle ipotesi. In assenza di fatti accertati, su cui ogni buon ricercatore deve basare le proprie affermazioni, l’interpretazione a caldo di quanto accaduto, vista la storia del confronto al confine sino-indiano, può seguire due percorsi diversi e non necessariamente alternativi. Il primo può essere legato a una serie di misure adottate dall’India e non particolarmente gradite a Pechino, come appunto la tanto criticata abrogazione avvenuta nell’agosto scorso dello statuto autonomo al Kashmir, un territorio tuttora conteso. In questo contesto, si inserisce poi una politica cinese volta sempre più ad affermare il ruolo del Paese nella regione dell’Indo-Pacifico, che costituirà nei prossimi 5 o 10 anni il cuore pulsante della geopolitica mondiale, anche in considerazione della crescente contrapposizione con gli Stati Uniti. Questa interpretazione appare coerente con la volontà di Pechino di assumere un ruolo di primo piano a livello globale anche per quanto riguarda le questioni militari e della sicurezza”.
Questo “piccolo-grande gioco” tra Cina e India sembra quindi riguardare da vicino varie aree dell’Asia centro-meridionale e non solo. Come altro si spiega in questo contesto uno scontro così violento, il più sanguinoso degli ultimi 50 anni?
“Un’altra interpretazione vede un’India che prova a dimostrare la propria rilevanza nella regione, anche dal punto di vista militare, seguendo un po’ la stessa logica adottata dalla Cina anche se in modo diverso e in maniera complessa. Negli ultimi anni, Delhi ha adottato una politica estera improntata al multilateralismo, aderendo ad esempio all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, un organismo di natura militare fondato proprio dalla Cina (insieme alla Russia e ad altri Stati dell’Asia centrale, a cui presenzia anche il Pakistan – ndr), partecipando però allo stesso tempo al Quad (Quadrilateral Security Dialogue – ndr), un dialogo strategico informale con Stati Uniti, Giappone e Australia, considerato uno strumento di contenimento del ruolo di Pechino, una piattaforma che ha quindi tutt’altri obiettivi. Nonostante le ambizioni regionali e le apparenti contraddizioni in politica estera, l’India non mostra davvero interesse a un confronto diretto con Pechino, anche per il rischio di ritrovarsi a combattere una guerra su due fronti: dal lato cinese e da quello pakistano”.
In tutto questo discorso il convitato di pietra è proprio il Pakistan, su cui si riverberano i dissidi tra le due potenze nucleari, le uniche ad aver incrementato le proprie scorte di armamenti nell’ultimo anno. Come influiscono sui rapporti tra Cina e India i recenti investimenti e il sostegno cinese a Islamabad, un’altra potenza atomica, con iniziative come il Corridoio Economico e progetti ambiziosi come il porto di Gwadar e la nuova Via della Seta?
“Negli ultimi anni, la Cina è stata impegnata in un grosso lavoro di avvicinamento al Pakistan che, nonostante gli ingenti investimenti, ha però almeno in parte disatteso le aspettative. I rapporti tra Pechino e Islamabad non sono poi così solidi come si era sperato qualche anno fa: il Corridoio Economico tra Cina e Pakistan non riesce ad esempio ancora a vedere la luce per una serie di ostacoli. Sebbene la tanto celebrata cooperazione sino-pakistana stenti a decollare, resta molto importante per l’India monitorare la situazione perché non diventi un’occasione per riaccendere le storiche rivendicazioni territoriali nell’area, aprendo un secondo fronte che sarebbe impossibile da gestire per New Delhi”.
Questi attriti hanno attirato da tempo anche le attenzioni degli Stati Uniti, impegnati militarmente da 19 anni in Afghanistan, uno snodo fondamentale per le dinamiche dell’Asia centrale e gli equilibri strategici tra Pakistan, India e Cina. Lo scorso mese Donald Trump ha proposto una mediazione della Casa Bianca nella disputa di confine tra New Delhi e Pechino. Viste le molteplici frizioni americane con la Cina e l’esistenza di meccanismi come il Quad, Washington non appare un attore neutrale, come potrebbe cambiare lo scenario con il coinvolgimento diplomatico degli americani?
“Al momento, nemmeno i rapporti tra la Casa bianca e il governo indiano sono tanto solidi. Al netto degli annunci, l’investimento politico-diplomatico degli Stati Uniti sull’India è stato forse maggiore negli anni precedenti rispetto ai piani dell’attuale amministrazione Trump. Soprattutto sotto la guida del presidente Obama, Washington aveva puntato in maniera sincera e profonda su Delhi, con una serie di investimenti concreti. Trump è partito invece con il piede sbagliato nelle relazioni con l’India, nominando l’ambasciatore americano nel Paese con diversi mesi di ritardo rispetto all’insediamento della nuova amministrazione, un segnale colto dalla politica indiana come una mancanza di interesse da parte della Casa bianca. Tuttora, l’opinione pubblica indiana non percepisce un solido rapporto bilaterale con gli Stati Uniti, considerati sempre ovviamente un alleato fondamentale ma non più un attore su cui contare nella buona e nella cattiva sorte. Nonostante la capacità del primo ministro Narendra Modi di mobilitare la diaspora indiana negli Stati Uniti e di costruire un rapporto anche personale con il presidente americano, Washington non rappresenta più come negli ultimi 20 anni il fulcro della politica estera di Delhi, che continua sempre a guardarsi intorno alla ricerca di nuove alleanze funzionali ai propri interessi”.
Nonostante le dispute commerciali, l’annunciato ritiro dall’Afghanistan e gli sgarbi istituzionali, gli Stati Uniti sembrano comunque molto interessati all’India: nel 2018 l’attuale amministrazione statunitense ha addirittura escluso dalle sanzioni all’Iran il porto iraniano di Chabahar, finanziato da New Delhi e considerato, con le dovute proporzioni, un concorrente del progetto cinese di Gwadar, nello stesso anno, seguendo le orme tracciate da George W. Bush che nel 2006 aprì per primo alla cooperazione nucleare con l’India, Washington ha ribattezzato il maggior comando delle forze armate americane, quello del Pacifico, “United States Indo-Pacific Command (USINDOPACOM)”, a testimonianza del forte interesse per l’area indiana, soprattutto in un’ottica di contenimento della Cina:
“Il punto è che l’India non si è impegnata in questo ruolo di contrappeso alle ambizioni di Pechino nell’area, anzi. Delhi ha cercato in primis nuovi contatti soprattutto con le democrazie dell’Indo-Pacifico e d’altro canto ha mantenuto relazioni abbastanza buone con la Cina, pur partecipando a iniziative come il Quad. Nonostante il crescente desiderio da parte di alcune democrazie dell’area di una maggiore presenza indiana a contenimento dell’influenza cinese, l’India non ha voluto assumere una postura di netta contrapposizione a Pechino, arrivando persino ad apparire uno spettatore passivo rispetto alla penetrazione cinese nella regione, un comportamento letto da alcuni osservatori come strumentale se non ad un avvicinamento quantomeno a una non interferenza tra le parti, almeno fino a una settimana fa. Adesso tutte le carte in tavola possono cambiare, soprattutto in ottica interna”.
Esiste una lettura dell’atteggiamento indiano nei confronti della Cina slegata dalle logiche internazionali e geopolitiche?
“Avere un nemico all’esterno viene sempre molto comodo in situazioni di emergenza, una politica che il premier Modi ha dimostrato di padroneggiare ampiamente, anche in passato. Con particolare riferimento alla dubbia gestione dell’attuale pandemia di COVID-19 (soltanto ieri, 17 giugno, l’India ha registrato 12.881 nuovi casi di infezione, arrivando a quasi 367mila contagiati e oltre 12mila morti – ndr), compattare l’opinione pubblica indiana contro l’avversario cinese, oltretutto giocando su un risentimento anti-cinese presente da tempo nel Paese, può essere funzionale all’attuale amministrazione di Delhi, soprattutto per quanto riguarda le tempistiche”.
I recenti scontri hanno riportato in auge in India un improbabile boicottaggio commerciale contro la Cina, che dimostra però i solidi rapporti intrattenuti a livello economico dalle due potenze, capaci di registrare un interscambio annuo superiore ai 92 miliardi di dollari nonostante un conflitto tecnicamente ancora in corso dal 1962. Cosa può riservare il futuro alle relazioni economiche sino-indiane e a quali ripercussioni globali assisteremo in vista di una probabile recessione causata dalla pandemia di COVID-19?
“La dipendenza commerciale dell’India dalla Cina è evidente e i numeri parlano da soli, rendendo forse inevitabile la compenetrazione tra le due economie. A mio avviso, nei prossimi anni, sarà sempre più importante la diversificazione dei mercati strategici da parte indiana, un obiettivo che accomuna l’India all’Unione europea. Il mio augurio è che queste due realtà possano avvicinarsi proprio nell’ottica di una progressiva differenziazione delle filiere di approvvigionamento internazionali. La crisi COVID ha d’altronde dimostrato una dipendenza, con gradazioni diverse, di entrambe le realtà da alcune forniture cinesi”.
Se ormai 20 anni fa si tenne a Lisbona il primo summit euro-indiano, negli ultimi tempi abbiamo registrato una moltiplicazione dei contatti anche strategici tra l’Ue e la Cina, che ruolo ha l’Europa in questa storia?
“Cina e India sono due entità complesse a livello geopolitico, che hanno una concezione differente della propria politica estera. Forse l’unica cosa che accomuna i due Paesi è l’enorme peso demografico, ma c’è poco altro. Mentre la Cina si muove con un passo decisamente diverso, al momento l’India e l’Unione europea costituiscono due partner strategici che non sono riusciti a sfruttare al meglio il potenziale della collaborazione reciproca, nonostante i grandi risultati raggiunti nelle sedi di confronto. I summit tra Ue e India sono stati più di trenta e i rispettivi funzionari si incontrano in continuazione, discutendo più o meno regolarmente tutte le questioni più importanti a livello internazionale, dalla sicurezza ai cambiamenti climatici all’economia. Va sottolineato però che questi risultati sono stati ottenuti soprattutto per il grande lavoro svolto dall’Unione europea, che intende chiaramente investire sull’India, nonostante le perplessità di Delhi in questo senso dovute in primis alla difficoltà di capire un organismo come l’Ue e alla relativa mancanza di interesse da parte del corpo diplomatico indiano, molto preparato a livello scientifico (molti sono ingegneri) ma forse poco attrezzato culturalmente per relazionarsi con una realtà difficilmente comprensibile come l’Unione”.
Insomma sembra che i vari Paesi europei puntino più sui superiori investimenti e scambi commerciali con Pechino che sulle maggiori affinità politiche e culturali con New Delhi:
Nonostante i contatti istituzionali a livello di Unione europea, l’India e la Cina, come anche altri giganti internazionali quali la Russia, sembrano giocare sulle relazioni bilaterali a proprio vantaggio. Tuttora si preferisce per esempio, sia a livello europeo che indiano, mantenere relazioni dirette tra le varie capitali e Delhi invece di optare per un coinvolgimento dell’Ue. Questo atteggiamento, forse un po’ miope, non consente di massimizzare i risultati di questi rapporti soprattutto per i Paesi membri dell’Unione. D’altro canto, nonostante le affinità, gli investimenti europei in India sono una frazione di quelli erogati in Cina, anche per le maggiori difficoltà che paradossalmente incontrano le imprese del vecchio continente ad accedere al mercato indiano rispetto a quello cinese. Lo scenario potrebbe mutare se questo rapporto si invertisse e alcuni investimenti europei lasciassero la Cina per l’India. Questo potrebbe costituire una svolta nelle relazioni tra i tre attori. Tuttavia, il motivo per cui le imprese europee, anche italiane, preferiscono investire in Cina piuttosto che in India risiede proprio nei maggiori ostacoli all’accesso al mercato indiano, che la singola azienda e il singolo Paese non riescono facilmente a superare senza l’aiuto del coordinamento comunitario e la pressione di un attore da 500 milioni di abitanti con un’economia come quella dell’Ue”.
Quale ruolo può avere l’Italia in questo contesto, vista l’importanza dei mercati indiano e cinese, soprattutto dal punto di vista dell’industria meccanica, per le nostre esportazioni?
“L’Italia sta dimostrando una crescente volontà di penetrazione nel mercato indiano e in quello cinese. In questo senso, il governo ha promosso anche in passato la presenza delle aziende italiane, soprattutto in India. Questa visione assume però un senso sempre nel quadro dei rapporti economici bilaterali, restando abbastanza limitata finché non si coinvolgono in primis gli altri Paesi dell’Unione europea e poi l’Ue stessa a livello istituzionale. Solo attraverso questo coordinamento si possono affrontare questioni di rilevanza globale che in un quadro bilaterale non possono essere esaminate altrettanto efficacemente. Finché i Paesi membri non adotteranno automaticamente un meccanismo coordinato in ogni questione esterna sarà molto difficile incidere su vicende di rilevanza globale. La relazione economica bilaterale può sempre andare in porto, anche in virtù di specifiche politiche industriali, adottate ad esempio da Stati con economie più piccole rispetto all’Italia ma che riescono efficacemente a guadagnare terreno sui nuovi mercati. Ripeto però che giocando insieme a Bruxelles si ottengono risultati molto più proficui rispetto ai singoli rapporti bilaterali, anche dal punto di vista politico”.
Questo discorso può valere anche per iniziative come la nuova Via della Seta, a cui partecipa l’Italia, unico tra i grandi Stati europei, e la piattaforma di cooperazione tra la Cina e i Paesi dell’Europa centrale e orientale?
“Questo genere di iniziative sembrano piuttosto rischiose per l’Unione, in quanto coinvolgono singoli e importanti Paesi, compresi alcuni non ancora aderenti all’Ue. L’Unione ha abbozzato delle iniziative di risposta, come la Connectivity Strategy presentata nel 2018 per lo sviluppo delle infrastrutture e non solo verso l’Asia, ragionando su basi diverse rispetto alla Via della Seta. Quest’ultimo progetto europeo risulta però ancora in fase di implementazione, soprattutto riguardo la necessità di co-finanziarlo, mentre l’iniziativa cinese sembra in uno stadio più avanzato. Ovviamente, i grandi attori globali come la Cina e non solo hanno tutto l’interesse a confrontarsi con un’Unione europea debole, giocando allo stesso tempo sui tavoli bilaterali. L’Unione però è un organo costruito su base democratica: ricordiamo che l’azione esterna passa dall’unanimità tra i vari Paesi membri, quindi Bruxelles fa solo quello che i singoli governi decidono di demandare all’Ue”.
Quale spazio può ritagliarsi allora l’Europa nelle relazioni tra Cina e India e più in generale nella regione dell’Asia-Pacifico, tanto importante nelle prospettive future e fondamentale per l’egemonia globale degli Stati Uniti?
“L’Europa sta già giocando una propria partita nella regione dell’Indo-Pacifico, la più calda dal punto di vista geopolitico, anche in prospettiva. La Francia ad esempio è già molto presente nell’area, ma anche la Germania si sta muovendo molto in questo senso. Se l’Ue da adolescente deciderà di crescere, passando una specie di ‘esame di maturità’ visto che siamo in tema in questi giorni, allora i singoli Paesi capiranno che l’Unione ha e può avere una rilevanza non meramente regionale ma di livello globale. Per forza di cose, aggiungerei: la sopravvivenza politica sul pianeta richiede necessariamente una postura globale e non più regionale. Solo con questo passaggio di visione da organismo continentale ad attore mondiale, pur mantenendo tutte le caratteristiche di organismo multilaterale e aperto al dialogo, l’Europa potrà assumere un ruolo importante in queste vicende. Sarà necessaria però la volontà politica di adoperare tutta una serie di strumenti in gran parte già esistenti per contare a livello globale, anche dal punto di vista della sicurezza. Per natura, l’Unione non sarà mai probabilmente interessata a costituire di per sé un terzo polo mondiale alternativo a potenze come Cina e Stati Uniti, ma magari potrà partecipare e in qualche modo guidare una coalizione di democrazie, come India, Australia, Giappone e tutta una serie di medie potenze, capaci di controbilanciare lo strapotere sino-americano in virtù del proprio soft-power”.
In questo contesto, Cina e India sono davvero destinate a divergere o potrebbero costituire un proprio polo di aggregazione, quantomeno a livello asiatico?
“Non vedo necessariamente una divergenza nei rapporti e nelle prospettive future tra Cina e India. Ovviamente la nostra visione è limitata dalla fondamentale differenza nel livello di trasparenza dei processi decisionali tra i due attori. Se per Delhi siamo a conoscenza di tutta l’articolazione e la variazione del pensiero politico in ogni sua forma dalle posizioni più estreme alle più moderate, da Pechino fuoriesce praticamente solo la linea ufficiale. Il sentimento indiano verso la Cina si compone di una moltitudine di percezioni, desideri e interessi diversi. Il governo del premier Modi non ha dimostrato per il momento la volontà di contrapporsi alla Cina, adottando sempre un atteggiamento piuttosto positivo. Certo, adesso le cose sono cambiate ma dobbiamo vedere fino a che punto cambieranno davvero e se si tratta di percorsi irreversibili, visti anche i costi di un cambio di rotta. Negli ultimi anni, le due potenze hanno d’altronde dato prova di saper gestire le relazioni in maniera proficua pur senza rinunciare alle rispettive rivendicazioni territoriali e agli scontri. I rapporti sviluppati tra Delhi e Pechino sono molto complessi e questo è frutto di una diversa mentalità rispetto ad altri Paesi, anche della stessa area, alla propria politica estera. Cina e India assumono un atteggiamento sempre mediato, non seguono un approccio ‘o bianco o nero’ e questo permette loro anche di contenere il livello dello scontro”.