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Dacia Maraini a TPI: “Una donna che legge fa paura”
I tasti della Olivetti 82 sembrano ancora comporre parole e le sopracciglia folte di Alberto ti scrutano dai quadri che tappezzano Casa Moravia. È qua che incontriamo Dacia Maraini.
Con gli occhi bordati d’azzurro e un’esistenza eccezionale, che si intreccia con fatti e volti tra i più memorabili del Novecento, la scrittrice e sceneggiatrice festeggia quello che sarebbe stato il compleanno di Alberto Moravia, suo compagno per 20 anni.
In questo luogo Dacia Maraini ha cenato con Fellini (che la chiamava “Dacina”) , Mastroianni, Pierpaolo Pasolini, Bertolucci, Natalia Ginzburg, Maria Callas. Solo per citarne alcuni. Era la “comunità degli intellettuali”, nell’epoca in cui le case dovevano proteggere i dialoghi profondi tra amici.
Dalla pubblicazione del suo romanzo “La lunga vita di Marianna Ucrìa”, che è stato un successo da un milione di copie vendute, l’impegno della scrittrice per l’emancipazione delle donne è stato costante.
A TPI Dacia Maraini racconta il coraggio femminile, i viaggi che sono stati filo conduttore della sua vita e la potenza della scrittura. Confessando anche una simpatia per il movimento delle Sardine.
L’amore è inspiegabile. Qualcosa che accende i sensi e ti porta a desiderare e a porre tutte le tue attenzioni su un’altra persona.
Poi l’amore viene vissuto secondo le epoche. Ma la cosa più brutta è pensare che l’amore dia la sicurezza e il possesso: questo non dovrebbe mai accadere. Se diventa possesso è una forma di schiavitù e non è più amore.
C’era grande rispetto. Eravamo felici per le realizzazioni dell’altro. L’amore deve essere fatto di amicizia, di rispetto, di stima verso l’altro. Senza rispetto non esiste.
Perché qualcuno pensa ‘siccome io la amo, lei è mia’. Da qui nasce la violenza. Perché una donna indipendente ricorda sempre che non è di nessuno, che è libera, che è autonoma. La persona che ha identificato l’amore con il possesso va in crisi.
Non voglio dire tutti gli uomini, ovviamente. Non ne faccio una questione di genere, ci sono anche uomini che amano le donne.
Ci sono donne alle quali è ancora negata la parola. E il corpo del mio personaggio più conosciuto, Marianna Ucrìa, che reagisce alla violenza col mutismo, rappresenta la parola tagliata nella storia.
Noi parliamo da donne emancipate – anche se poi, a guardarci intorno, ci sono situazioni di fragilità estrema anche nel nostro mondo. Ma ci ritroviamo a gioire ad esempio perché le donne in Arabia possano cominciare a guidare: per la prima volta, non devono essere accompagnate, si affrancano dal controllo capillare maschile.
Perché le donne siano diventate più agguerrite, più autonome. La violenza verbale si scatena proprio contro quelle che dimostrano autonomia.
Il fatto che agiscano con la testa propria, senza chiedere il permesso, senza paura, degli altri e dell’autorità, crea in alcuni uomini intolleranza.
C’è un acutizzarsi anche della violenza sessuale. Lo stupro è un’arma di guerra inventata dagli uomini: gli animali non stuprano. È un atto di umiliazione e di sopraffazione sulle donne del nemico. Quando una società è gerarchicamente organizzata in modo chiaro, gli stupri si riducono. Di stupri invece è piena la società: al cinema, nei fumetti. Quando le donne diventano autonome, scatta questo atto di guerra.
Sono pericolose da sempre. La religione è stata sospettosissima: verso quelle che leggono e verso quelle che scrivono.
La scrittura rimasta sepolta nei conventi è piena di testi di bellezza esemplare, totalmente cancellati. Le mistiche hanno scritto testi meravigliosi. Che oggi, per fortuna, cominciano a uscire dai cassetti.
Mia madre, una donna di un coraggio leonino. Ha convinto gli uomini del campo a fare uno sciopero della fame in un contesto nel quale già si moriva di fame. Prendeva le lenzuola, cuciva le camicie per i poliziotti pur di avere in cambio per noi una patata.
Anche quando non camminava più – avevamo il beriberi, lo scorbuto – non l’ho mai vista piangere né brontolare. Aveva tre bambine da salvare.
Cerco di esserlo.
Mi piacciono molto le donne curde. Prima di tutto perché sono laiche. E siccome sono circondate da totalitarismi religiosi, il fatto che sono laiche è rivoluzionario.
Loro credono nella parità e combattono alla pari con gli uomini. E per i fanatici religiosi questo è intollerabile. Chi pensa che la donna si debba coprire, debba essere invisibile e scomparire e non partecipare alla vita sociale e politica. Per loro è inconcepibile che queste donne vadano a volto scoperto, imbraccino il fucile e combattano per la loro libertà.
Questo è un grande segnale. Lo sarebbe anche in Occidente. Ma lì in Siria molto di più. Danno un esempio di visibilità fondamentale per le donne mediorientali.
Secondo me dovremmo solidarizzare di più politicamente perché sono un modello.
Le religioni monoteiste hanno portato alla misoginia. Ma non era così inizialmente. per esempio nel cristianesimo non era così: Cristo non è mai stato misogino. Le donne prendevano attivamente parte alla vita.
Poi la Chiesa è diventata patriarcale. La Madonna era vergine, la trinità è fatta da padre, figlio e spirito santo. Cioè la Madonna è stata volutamente esclusa dalla sacralità! Per non parlare della storia che la donna viene creata da un pezzo di uomo…
Le religioni monoteiste teorizzano l’inferiorità delle donne.
Una donna oggi può raggiungere ruoli di potere, può fare carriera, ma è molto difficile che riesca a ottenere il prestigio.
Un esempio lampante è il mondo letterario: è pieno di donne che scrivono, che sono considerate brave. Quando poi, però, si passa alle istituzioni letterarie, dove si stabiliscono i valori, si scelgono i modelli per le generazioni future, le donne non ci sono più. Spariscono. Ed è lì che si crea la discriminazione.
Per avere un’idea dello stato delle cose basta poi leggere le antologie destinate agli studenti: c’è ancora l’idea che donne e uomini debbano avere ruoli diversi. Il maschile viene considerato il vero valore universale, mentre il femminile solo una sua derivazione, qualcosa di inferiore.
Questo elemento si nota anche nei negozi di giocattoli. La separazione dei compiti si vede, ancora, nei giochi destinati ai bambini e alle bambine. Io credo che bisogna insistere sulla cultura: far capire ai più piccoli che un genere inferiore non esiste. E che non si può possedere nessuno.
Basti pensare a quanti insulti prendono quotidianamente l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, l’attivista Greta Thunberg, la senatrice Liliana Segre. Loro, che dovrebbero essere dei modelli.
I politici, soprattutto quelli più legati a un’idea tradizionale di famiglia, sono pericolosi con i loro discorsi: non sopportano l’omosessualità, non sopportano famiglie allargate, non sopportano l’identità di donna.
Non ce l’ho con una persona, non mi piace pensare che una singola persona sia il “nemico del popolo”. me la prendo però con le sue idee. E trovo particolarmente brutali i modi che Salvini ha utilizzato nei confronti di Carola Rackete: si può non essere d’accordo sul suo gesto, ma è stato un atto di coraggio, chiaramente in buona fede. La cosa grave è il tono che il ministro ha usato. Non ha espresso un pensiero con delle argomentazioni, ma attraverso gli insulti. Naturalmente quando poi il destinatario dell’insulto è una donna, si sfocia nel razzismo.
Quanto a Carola, si può non essere d’accordo con lei, ma non chiamarla “criminale”, soprattutto se si ricopre un ruolo come quello di Salvini. Se una persona delle istituzioni usa queste forme di violenza verbale, gli altri possono dire “se il ministro ha detto che è una criminale, allora va punita”.
E da qui partono gli insulti. È un crescendo: ogni violenza porta ad altra violenza, anche e soprattutto sui social. Chi governa dovrebbe dare un esempio di tolleranza e di equilibrio, di razionalità. Invece a me sembra che ci sia una sorta di ubriacatura di irrazionalità e ciò mi spaventa, mi indigna. La ragione vorrebbe che si parlasse con le idee, non con gli insulti. Questi ultimi creano un’atmosfera di guerra, anche nei confronti delle donne.
Ho molta simpatia per questi ragazzi, anche giovanissimi. Hanno risvegliato un’idealismo, che viene dalle folle. L’idealismo politico non viene dagli individui, ma quando una comunità si sente parte di qualcosa e fa dei progetti collettivi e a lungo termine.
È una cosa molto forte. Unica cosa, vorrei che ora facessero anche qualcosa per invece che solo qualcosa contro. Qualcosa per le donne, per il lavoro, per la cultura, per gli asili nido, per le scuole. Va bene essere contro, ma bisogna anche creare qualcosa.
So che non vogliono essere un partito, non ha importanza. Devono dire come la pensano. Cosa farebbero se fossero al potere. Per chiarezza e per essere utili al paese.
Mia nonna paterna, la scrittrice Yoi Crosse Pawloska, per metà polacca e per metà inglese, era una donna incredibile.
Zaino in spalla e sacco a pelo, da sola, se ne andava in giro per il mondo, per la Persia ad esempio, e tornava avendo scritto libri interessantissimi. In famiglia ho avuto molti esempi di donne coraggiose, che prendevano in mano la vita. E la facevano propria.
La fame e la povertà non si dimenticano mai.
Viaggi indimenticabili. Era anche un Africa diversa, con meno guerre, meno fanatismo religioso. Partivamo per scoprire anche un po’ noi stessi.
Andavamo ovunque con queste Land rover: sempre fuori dagli itinerari convenzionali. Dormivamo nelle tende, nel deserto.
Ed era bellissimo viaggiare con Pierpaolo e Alberto. Erano due persone curiose e incantate, che volevano capire e vedere e che avevano un’umiltà enorme verso la conoscenza e la diversità che bisognerebbe sempre avere quando si viaggia. Non pensarsi superiori rispetto a un mondo arcaico o selvaggio. Noi volevamo imparare da quei mondi là.
La conoscevo dal palcoscenico: pensavo fosse un drago, una donna autoritaria, potente e capricciosa. Un giorno Pier Paolo mi annunciò che sarebbe venuta con noi in Mali. Io pensai: “Oh, no. La diva no…”. Ma quando la vidi arrivare, coi jeans e la sua piccola valigia in mano, cambiai immediatamente idea. Nella vita privata aveva un candore, un’ingenuità, un infantilismo persino, che mi facevano provare verso di lei profonda tenerezza.
Fu un viaggio molto bello. Lei era innamoratissima di Pasolini, e decisa a “guarirlo” per sposarlo. Pier Paolo, del resto, non la ingannava: anche lui la amava, pur se in modo platonico, e non lo nascondeva. Una sera dormimmo nella stessa stanza: lei cominciò a confidarsi, dicendo che aveva sbagliato tutti gli amori della sua vita. “Pensi che stia sbagliando anche adesso”, mi chiese? Sì, chiaramente. Era fragilissima, timida: e questa sua tenerezza ce la faceva amare.
Quel tempo però è finito. Ma non è finito solo per me: si è perso quel senso di comunità letteraria e artistica che aveva il gusto di stare insieme.
Incontro i miei colleghi scrittori: ai festival, ai convegni, ma è un’altra cosa: quel mondo fatto da Pier Paolo Pasolini, Enzo Siciliano, da Cesare Garboli, da Natalia Ginzburg aveva la consapevolezza di essere una comunità. E si ritrovava per il puro piacere di vedersi.
Comunque, io viaggio ancora molto per lavoro.
Certo, sempre. Il viaggio è un processo di conoscenza. E su quello bisogna puntare.