Se a volte ci sentiamo giudicati “strani”, “diversi” o un po’ bizzarri, ora uno studio dell’università di Yale ha sfatato un falso mito: nessuno di noi può davvero definirsi “normale” – al di là del fatto che normale, appunto, significa ben poco.
I neuroscienziati della prestigiosa università di Yale hanno condotto uno studio che ha portato alla scoperta che in realtà nessuno può considerarsi “normale” a tutti gli effetti.
Essere “normale” è uno stato relativo che dipende da diversi fattori come il tempo, il luogo e le circostanze. Secondo i ricercatori dell’università americana gli esseri umani non possono essere considerati “normali”, e questo vale sia per gli stati mentali che fisici.
Non esiste una persona “normale”, non esiste “un profilo della personalità universalmente ottimale”o che si possa considerare giusto. I neuroscienzati di Yale stanno cercando di ottenere maggiori riconoscimenti per questa scoperta anche e soprattutto per favorire una maggiore consapevolezza nella psichiatria classica che ci considera invece tutti complessi.
Il nuovo studio, pubblicato il 20 febbraio 2018 sulla rivista scientifica Trends in Cognitive Science, sfata il mito della “normalità” nelle persone e negli animali. La ricerca ” The Myth of Optimality in Clinical Neuroscience” dei ricercatori Avram Holmes e Lauren Patrick del dipartimento di psicologia dell’università di Yale utilizza l’evoluzione per dimostrare che l’uniformità del nostro cervello è totalmente anormale.
L’evoluzione dell’uomo e degli animali tira fuori l’istinto di sopravvivenza e l’ingegno all’adattabilità che è correlata ai fattori del tempo, luogo e contesto. Tutto è in costante trasformazione e evoluzione, questo significa che qualsiasi comportamento può essere classificato come giusto o sbagliato, normale o anormale, appropriato o inappropriato a seconda del contesto.
In altre parole, tentare di definire le persone da una prospettiva psichiatrica è sbagliato perché ostacola le persone e non le lascia libere di esprimere il loro “io” appieno.
La psichiatria classica classifica le persone in un modo, che seppur lineare, è secondo i ricercatori limitante. Avram Holmes e Lauren Patrick propongono invece di valutare e comprendere ogni individuo singolarmente da una prospettiva psichiatrica, secondo un’ampia gamma di comportamenti e tendenze che sono per natura fluttuanti.
Un “approccio quantistico” alla psichiatria quindi, piuttosto che il classico approccio binario che offre solo due opzioni: uno e zero. Nell’informatica l’approccio quantistico considera innumerevoli fattori per risolvere un singolo problema in modo estremamente sofisticato e così allo stesso modo secondo i ricercatori si dovrebbe utilizzare questo metodo anche nel campo della psichiatria. Questo sistema non si limita a classificare singoli bit di informazioni casuali in isolamento, ma di capire tutto nel suo insieme, considerando anche il contesto.
Invece di abbandonare del tutto le categorie per i pazienti i ricercatori di Yale sostengono che gli psichiatri dovrebbero soltanto perfezionarle: prendere in considerazione un quadro più ampio e creativo per classificare i disturbi che si associano ai pazienti.
Quartz, in un’intervista sul tema, ha chiesto a Avram Holmes, il ricercatore principale dello studio, di spiegare in maniera semplice la scoperta: “non esiste un modello universale, incondizionatamente ottimale della struttura o della funzione del cervello. Il confine che separa la salute dalla malattia non può essere tracciato in modo netto analizzando o prendendo in considerazione soltanto il singolo comportamento o il singolo aspetto della funzione cerebrale.”
E ha aggiunto che “In isolamento ogni tratto comportamentale psicologico o neurobiologico in genere non si può considerare né buono e né cattivo. Il contesto in cui si trova una persona, la sua età, la sua rete sociale e l’ambiente, sono fattori che possono avere un’enorme influenza sui costi e sui benefici di tratti particolari”. Nel giudizio non si può quindi prescindere da fattori come luogo, contesto e tempo, fattori imprescindibili nella classificazione di un disturbo comportamentale di natura psichiatrica.