“Napoli incarna tanti mali e tante risorse del Sud: è la sua maschera, quella di un territorio con minore democrazia e che non partecipa attivamente all’Europa, dove si fa il baciamano al ministro in visita e che è manipolabile politicamente sfruttandone i bisogni. Ma anche un territorio di forte umanità e di resistenza, di talenti che vogliono esprimersi e che premono su una scarsità di risorse tutte concentrate in poche mani”. A parlare è Maurizio Braucci, cosceneggiatore de La paranza dei bambini, che il 16 febbraio 2019 ha ottenuto l’Orso d’argento – uno dei premi più importanti al Festival del cinema di Berlino e dedicato alla sceneggiatura – condiviso con Roberto Saviano e Claudio Giovannesi, regista del film.
Braucci, classe 1966 e originario di Napoli, ha alle spalle una lunga carriera. Al di là delle sue esperienze da scrittore e promotore culturale – numerosi i progetti avviati nelle carceri e nei centri sociali – il teatro e soprattutto il cinema hanno avuto un peso non indifferente nel suo percorso artistico. Basti pensare alle importanti collaborazioni con Matteo Garrone – in Gomorra e Reality – e il regista newyorchese Abel Ferrara.
TPI ha ripercosso con Maurizio Braucci le tappe più importanti della carriera ponendo l’accento su come si svolge il mestiere dello sceneggiatore nella settima arte.
Gomorra di Matteo Garrone era un film che svelava un mondo – quello della camorra – che allora nessuno conosceva bene nelle forme che aveva acquisito. Forme connesse con l’economia e sorprendenti per la loro modernità. Con La paranza di Claudio Giovannesi abbiamo cercato di fare una pellicola che riguarda la condizione giovanile nel Sud Italia e su cui le mafie prolificano. Infatti, oltre a mostrare quella realtà, abbiamo cercato di raccontare le motivazioni e l’immaginario di adolescenti che vivono come in guerra. Era necessario fare un passo in più dopo Gomorra per capire come sia possibile che dei giovanissimi scelgano la violenza e la morte associandosi a un sistema criminale. Non a caso il film racconta di adolescenti che si ispirano a un immaginario fatto di tribalismo e post-modernità e con dei desideri di omologazione che si esprimono attraverso la violenza.
“Io ho sempre cercato di raccontare l’immaginario degli adolescenti più ribelli, sono quelli con cui sono cresciuto e che ancora vedo nel quartiere dove vivo a Napoli. Un mondo che ho raccontato anche con la rabbia di chi sa che tutto questo non potrebbe essere annullato, ma di certo molto ridotto”.
Ha segnato una svolta nelle serie tv italiane: moderna, realistica, graffiante. Ma io raramente guardo la televisione e le serie.
Napoli è ancora la capitale del Sud e noi che la raccontiamo sappiamo che è difficile far capire che i drammi che ambientiamo lì in realtà sono quelli del Meridione. Messi in scena, però, sul palcoscenico della più grande metropoli al di sotto di Roma.
Matteo ha sempre dato importanza alla scrittura sebbene il suo metodo di creazione sul set sia forte. È un cineasta che ha sempre avuto bisogno di una sceneggiatura ferrea anche se poi la cambiava. Le modifiche durante le riprese sono abbastanza normali, avvengono anche in sala di montaggio, a meno che non si tratti di produzioni strettamente industriali.
Sono stati due progetti molto diversi. Pasolini è stato rocambolesco, ma anche il film di Munzi ha avuto le sue vicissitudini. Ho partecipato molto di più al film di Abel come scrittura, e siccome lì abbiamo toccato la questione della morte di Pasolini, è stato davvero difficile spiegare che non tutto è scontato in quella drammatica vicenda.
Una decisione del regista, secondo me azzeccatissima, che rappresentava la sua ricerca cinematografica in quel momento e anche la sua forza di imporla ai produttori. Chiaramente è venuta da una condizione reale di multilinguismo degli attori scritturati.
Anche questo è stato un progetto molto impegnativo – e a volte si va di fretta – ma è stato bello andare in scena con quei giovani e in quel teatro (Trianon Viviani, ndr): abbiamo fatto un miracolo. Ho riflettuto molto sul fatto che questa iniziativa sia stata criticata per il testo che, secondo alcuni, era troppo buonista. In genere, al contrario, mi dicono che partecipo sempre a progetti troppo forti e che mettono in chiaroscuro la città di Napoli. Alla fine, vedendo anche alcune reazioni al film La paranza, ho capito che si polemizza sempre su un’idea che è sotto la luce dei riflettori, quindi meglio non preoccuparsi troppo.
La letteratura è la prima ispirazione, la grande e buona letteratura. Poi ci sono scrittori che hanno fatto dei percorsi nel cinema, come sceneggiatori puri (da Sergio Amidei a Massimo Gaudioso) o partecipando a dei progetti cinematografici (Tonino Guerra, Harold Pinter, Nicholas St John). Ma come non amare Ennio Flaiano, che si muoveva a metà tra letteratura e cinema, e tanti registi che sono poco noti come sceneggiatori e che hanno scritto i propri film (Pasolini, Richard Brooks, Paul Thomas Anderson e altri)?
Sono due metodi diversi. Lo scrittore ha tutto sulle proprie spalle, lo sceneggiatore partecipa a un progetto che va magari dall’agente fino al montatore del film. Mi piace fare entrambe le cose, ma i romanzi ti cambiano la vita più dei film: leggere è più difficile, più intenso.
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