In Islanda, una commissione formata da tre membri e chiamata Mannanafnanefnd ovvero Comitato per i nomi di persona, ha il compito di preservare le antiche tradizioni nazionali sui nomi dei bambini. Ogni mese questo organo riceve richieste da parte di genitori, o futuri tali, per l’approvazione dei nomi scelti per i propri figli e, in generale almeno la metà delle domande risultano accettate.
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Negli anni, questo comitato ha compilato un elenco formato da 1.888 nomi maschili e 1.991 femminili, considerati accettabili. Se infatti le proposte dei genitori non rientrano fra i nomi considerati storicamente islandesi, ma risultano comunque conformi alla consuetudine linguistica, vengono inseriti all’interno dei registri ufficiali.
In alcuni casi invece queste richieste risultano rifiutate e i genitori sono pregati di chiamare i propri figli in modo diverso. È il caso di “Cleopatra”, nome scartato perché la lettera “c” non rientra nell’alfabeto islandese.
Ogni quattro anni i tre membri di questa commissione, istituita nel 1991, sono sostituiti e vengono sempre selezionati in modo che uno provenga dal ministero della Giustizia, uno da una facoltà di Filosofia e l’ultimo da una facoltà di Giurisprudenza delle università islandesi.
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Nonostante sia una delle nazioni più liberali d’Europa, dal punto di vista linguistico l’Islanda è un paese “conservatore”, che considera alcuni nomi propri delle vere e proprie estensioni del proprio patrimonio culturale.
Moltissimi di questi infatti risalgono addirittura al periodo delle Íslendingasögur, le cosiddette Saghe degli Islandesi, le prose sui primi secoli di vita del popolo dell’isola. Alcuni di questi nomi includono sostantivi, aggettivi o verbi, che richiamano i gelidi inverni del passato.
Il nome Eldjárn per esempio unisce le parole “fuoco” e “ferro”, Glóbjört invece è il risultato dell’unione dei sostantivi “splendore” e “luminoso”.
Le ragioni di questa politica di forte purismo linguistico trova le sue radici nel XIX secolo, quando i giovani autori islandesi coltivavano una visione romantica della propria lingua, immaginata come una giovane fanciulla, un tempo bellissima e successivamente infettata da contaminazioni latine, tedesche e soprattutto danesi.
In Islanda, il danese è la lingua dei colonizzatori, un idioma che nel corso del tempo ha indebolito la lingua locale, limitando la diffusione all’ambito privato. Per questo, secondo gli autori del tempo, era necessario far rivivere l’islandese e farlo ritornare al proprio originario splendore.
Con la liberazione dal dominio danese nel 1918, questa volontà di purificare la lingua si intensificò e riuscì a influenzare profondamente la cultura dell’isola, tanto che ancora oggi alcuni islandesi provano imbarazzo quando usano espressioni in lingua inglese.
I cittadini dell’isola restano ancorati all’Islandese ideale, puro, per cui provano orgoglio.