Delitto Garlasco | Processo | Tutte le tappe
Il 28 giugno 2017 la Corte di cassazione ha confermato la condanna a 16 anni di carcere per Alberto Stasi, ritenuto colpevole dell’omicidio della fidanzata Chiara Poggi il 13 agosto 2007.
Stasi, già condannato dalla Cassazione nel 2015, aveva fatto ricorso straordinario chiedendo l’apertura di un terzo processo d’Appello. È fallito anche il tentativo della difesa di Stasi di far riaprire le indagini a carico di un amico del fratello di Chiara, ritenuto invece innocente.
È stato scritto così il capitolo definitivo di uno dei casi giudiziari più lunghi e complessi finiti sulla cronaca dei giornali italiani.
Ma come sono andati i fatti in quel 13 agosto di quasi dieci anni fa? E quali sono state le tappe che hanno portato alla condanna di Alberto Stasi?
L’omicidio di Chiara Poggi
Il 13 agosto 2007, tra le 9:12 e le 9:35 del mattino, l’impiegata 26enne Chiara Poggi viene uccisa nella villetta in cui viveva con i suoi familiari a Garlasco, in provincia di Pavia. La ragazza viene assassinata a colpi di un oggetto contundente che non è mai stato ritrovato, forse un martello. Era sola in casa, perché i genitori e il fratello erano in vacanza.
Nell’abitazione casa non c’erano segni di effrazione, Chiara aveva aperto la porta spontaneamente al suo aggressore e in pigiama. Questo fa subito pensare agli inquirenti che conoscesse il suo assassino.
A dare l’allarme è il fidanzato di Chiara, Alberto Stasi, allora studente di 24 anni, che aveva trovato intorno alle 13.50 il corpo riverso in fondo alle scale che conducono alla tavernetta di casa Poggi.
“Credo che abbiano ucciso una persona. Non ne sono sicuro, forse è viva…c’è tanto sangue dappertutto”, dice Stasi al 118 prima di chiamare i carabinieri.
Il 24 settembre Stasi viene fermato. Secondo gli inquirenti contro di lui ci sono indizi “gravi, precisi e concordanti”.
Gli indizi contro Stasi
Ad attirare l’attenzione degli investigatori su Alberto Stasi sono il Dna di Chiara, rinvenuto sui pedali della bicicletta del ragazzo, e le scarpe di Stasi, ritenute “troppo pulite” per aver attraversato il pavimento sporco di sangue di casa Poggi.
Stasi sostiene che nell’orario in cui si è verificato il delitto lui stesse lavorando al computer alla sua tesi di laurea, ma il racconto del ragazzo non convince gli inquirenti.
Gli investigatori provano ad esaminare altre ipotesi, ma nessuna si concretizza.
Intanto, il giudice per le indagini preliminari ritiene che non ci siano elementi sufficienti per tenere Stasi in carcere e il giovane dopo quattro giorni torna a casa. “È la fine di un incubo”, commenta il ragazzo.
Il 3 novembre 2008 la procura chiede e ottiene il rinvio a giudizio di Stasi.
Le assoluzioni nel processo di primo e di secondo grado
Nel 2009 si apre di fronte al tribunale di Vigevano il processo con rito abbreviato contro Stasi, che rimane l’unico indagato. Contro di lui l’accusa chiede trent’anni di carcere per omicidio volontario.
Il giudice dispone quattro nuove perizie per supplire ad alcune “significative incompletezze d’indagine” e “indizi contraddittori e insufficienti”.
Secondo la difesa, Stasi non si è sporcato perché il sangue era già secco e l’orario della morte è compatibile con questa ipotesi secondo la perizia medico-legale.
Inoltre, la perizia informatica conferma l’alibi del giovane, che sarebbe effettivamente stato al lavoro al computer nell’orario indicato.
Su queste basi, dopo 24 udienze, il 17 dicembre 2009 il tribunale di Vigevano assolve Alberto Stasi.
Nel 2011 Stasi torna in tribunale per il processo di secondo grado, celebrato a Milano. L’accusa e la famiglia di Chiara chiedono accertamenti sui frammenti organici nelle unghie della ragazza, su un capello trovato nella sua mano e sui due gradini della scala che Stasi ha calpestato prima di scoprire il cadavere.
Chiedono inoltre che sia acquisita la bici nera in possesso della famiglia Stasi, compatibile con quella vista da una testimone fuori da casa Poggi la mattina del delitto.
Una nuova perizia, inoltre, sposta l’orario dell’omicidio di Chiara, smentendo l’alibi dello studente e la plausibilità del fatto che non si sarebbe sporcato nel momento in cui ha rinvenuto il cadavere. Ma il collegio giudicante non accetta queste nuove verifiche. I giudici negano la riapertura del dibattimento e il 6 dicembre 2011 la Corte d’Assise d’Appello assolve nuovamente Stasi.
La sentenza di annullamento della Cassazione e il nuovo processo di secondo grado
Il 17 aprile 2013 avviene un colpo di scena: la Corte di cassazione annulla la sentenza di secondo grado e chiede che sia celebrato di nuovo il processo. La ragione è che occorre una rilettura “complessiva e unitaria degli elementi acquisiti”.
Il 9 aprile 2014 Alberto torna quindi di fronte ai giudici d’appello. Stavolta viene sequestrata la bicicletta nera della famiglia Stasi. Viene disposta un’ulteriore perizia per analizzare le tracce sulle unghie e le mani di Chiara, ma non emerge nessun elemento rilevante perché i reperti sono degradati dal tempo.
Infine, l’analisi dei due gradini svela che la probabilità di non sporcarsi le scarpe di sangue era quasi del tutto inesistente.
Inoltre, contro Stasi ci sono le sue impronte rinvenute sul dispenser portasapone del bagno dei Poggi e il fatto che il suo numero di scarpe (42) coincide con quello dell’assassino.
Il 20 dicembre 2014 Stasi viene condannato a 16 anni di carcere. A dicembre 2015 la Cassazione conferma una prima volta la condanna. Stasi si consegna alle forze dell’ordine nel carcere di Bollate.
L’accusa ad Andrea Sempio e il ricorso straordinario
In seguito a un esposto presentato dalla madre di Alberto Stasi, viene iscritto nel registro degli indagati della procura di Pavia un giovane amico del fratello di Chiara. Si chiama Andrea Sempio, che all’epoca del delitto aveva poco più di 18 anni.
Sempio era già stato sentito due volte dagli inquirenti e il suo alibi era ritenuto solido. Per la difesa di Stasi il suo numero di scarpe è compatibile con quello dell’assassino e le tracce del Dna trovato sotto le unghie di Chiara coinciderebbe con il suo – elemento difficile da dimostrare dato il deterioramento dei frammenti.
Gli avvocati della famiglia di Chiara fanno sapere che ritengono “infondata” qualsiasi ipotesi sulla responsabilità di terzi nell’omicidio.
Sempio tuttavia per gli inquirenti è innocente, l’inchiesta nei suoi confronti viene archiviata.
Stasi decide comunque di procedere con il ricorso straordinario in Cassazione, un mezzo di impugnazione consentito solo in caso di presunta violazione di legge. I legali parlano di una “svista” da parte della Suprema Corte che non si sarebbe accorta di non aver valutato come nell’appello-bis non fossero stati ascoltati alcuni testimoni della difesa.
Il 28 giugno 2017 la Corte di cassazione respinge il ricorso, escludendo la possibilità di un terzo giudizio di appello contro Stasi.
Gli errori e la condanna al carabiniere che si è occupato delle indagini
Il caso di Garlasco ha dato luogo anche a un altro processo. A settembre 2016 il maresciallo Francesco Marchetto, che si è occupato delle indagini all’indomani del delitto e nel frattempo è andato in pensione, è stato condannato a due anni e mezzo di carcere per falsa testimonianza.
Marchetto avrebbe mentito durante il processo di primo grado sulla questione della bicicletta nera da donna in possesso della famiglia Stasi. Il carabiniere non sequestrò né fotografò la bici nera, nonostante fosse un elemento potenzialmente importante.
Forse per giustificare l’errore, disse di avere assistito personalmente alla deposizione della testimone che l’aveva vista davanti alla villa del delitto e di essere pertanto sicuro che non corrispondeva a quella custodita nell’officina del papà di Alberto, dalla quale differiva per alcuni particolari.
Ci sono anche altri errori nelle indagini che hanno probabilmente reso più difficile raggiungere la verità. Le tracce di Dna sul corpo di Chiara, per esempio, sono state esaminate in ritardo. I carabinieri inoltre non fotografarono dei presunti graffi all’interno dell’avambraccio sinistro di Alberto Stasi.
Infine, sul pigiama di Chiara, all’altezza della spalla, si notarono le impronte di quattro dita insanguinate che si ritiene siano dell’assassino. Delle impronte però rimase solo la fotografia perché furono cancellate quando il cadavere venne incautamente rivoltato sul pavimento cosparso di sangue.
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