Nel 2003 il sociologo Zygmunt Bauman ha dato alle stampe un saggio intitolato Amore liquido, indicando con questa espressione la fragilità dei legami affettivi nel presente, il loro crearsi e rapido estinguersi come forme in dissolvenza su una superficie acquea.
Eppure l’esperienza amorosa, per poter dirsi piena, dovrebbe essere fluida. Dovrebbe cioè scorrere senza intralci, assecondando il ritmo, generalmente intenso, della forza che la origina, che è pulsione di vita. A questo proposito, se pensiamo all’irruenza di questo sentimento corposo e multiforme, si può citare una filosofa attenta come Simone Weil, secondo la quale l’amicizia è da preferirsi all’amore, perché il rispetto della distanza che la connota diventa garanzia di riconoscimento reciproco, una condizione invece non sempre presente nelle vicende amorose. Si sa che l’amore fa un po’ come gli pare, scorre e va dove vuole. Non conosce argini, non capisce ragione, e soprattutto nella fase dell’innamoramento si muove sotto la spinta tumultuosa ed esaltata delle idealizzazioni ma anche dei bisogni disattesi.
L’amicizia è placida e piena e si armonizza con la realtà, l’amore invece sconfina, la surclassa e talvolta la sconvolge. Il suo arrivo può comportare una perdita di equilibrio e un fluttuare nell’aria denso di meraviglia ma anche non privo di cadute.
In tal senso, l’amore può anche essere dissipato e relegato nel territorio delle rinunce. Quando non è fluido e si scinde in mille rivoli e rigagnoli, la sua portata originaria viene dispersa. Diventa come una corrente castigata e discontinua, al cui scorrere placido o impetuoso si frappongono sassi, rami caduti, detriti depositatisi nel corso del tempo che ne rallentano il corso. Come l’acqua scorre nel letto di un fiume, ora lenta ora vivace ora prorompente, così l’amore fluisce attraverso le vite degli esseri umani, trovando in genere nelle esperienze passate, nelle paure, nelle delusioni, negli automatismi, i principali ostacoli alla sua piena espressione.
Frequentemente accade che quando non si può amare liberamente si vada in blocco, come una caldaia difettosa: da una parte uno vorrebbe lasciarsi andare e sprigionare calore, dall’altra no, sente che non deve, e si trattiene, celando un immenso potenziale. È questo il gravoso e dispendioso meccanismo dell’ambivalenza, che nonostante l’affacciarsi dei sentimenti e le possibilità di trasformazione della realtà, lascia le cose come sono, impelagando le emozioni nella ristretta intercapedine che si frappone tra l’attrazione e il respingimento. Questo genere di amore va un po’ avanti e un po’ indietro, non guadagna terreno, resta sostanzialmente fermo allo stesso punto, e lì si consuma. Si consuma perché nel frattempo non può essere goduto e quindi nutrito, non può essere mai definitivamente confermato, vede la luce solo a tratti e per il resto langue in un lathe biosas, in un vivere nascosto, che non gli concede respiro. Piuttosto rimane alla mercè di un conflitto che non vuole del tutto imprigionarlo ma neanche dignitosamente liberarlo. L’amore ambivalente è una delle più grandi sfide che possano toccare in sorte, è una prova di resistenza, per chi lo pratica e per chi lo subisce. Così, una pulsione vitale nata per esistere può appassire invece nel sacrificio e in un vorticoso dispendio di energie, in un mordi e fuggi che non conosce mai la soddisfazione del vero appagamento, logorandosi in un tormento talvolta esasperante.
Naturalmente esistono situazioni diverse e variamente complicate, per cui l’ambivalenza (dal latino ambi valentia, forza che si muove in entrambe le direzioni) può avere origini molteplici e dipendere da ragioni differenti. Si vuole e non si vuole, si ama e si allontana qualcuno che per la sua stessa presenza e per i ricordi smossi, ma anche per l’intensità dei sentimenti elicitati, può diventare invece il simbolo angosciante del pericolo, della tentazione e della perdizione. D’altra parte, in queste circostanze le paure sono spesso in agguato, tanto che Freud nel Disagio della civiltà scriveva: “Mai siamo più esposti alla sofferenza come quando amiamo, mai siamo più desolatamente infelici come quando abbiamo perso l’oggetto amato o il suo amore”. E dunque spesso l’amore soffre e non si dispiega, viene rallentato e disperso per timore di esporsi, di essere vulnerabili, dipendenti e quindi potenzialmente abbandonati, alla mercè di qualcun altro.
Eppure, la messa a nudo che ogni amore comporta implica non solo il rischio ma anche la scoperta e un guadagno notevole dal punto di vista del godimento, della visione e della percezione della realtà, del sentire la vita con un’intensità, una felicità e una pienezza difficilmente ritrovabile in altre circostanze con il medesimo vigore, e che non verrà mai dimenticata. Non casualmente questo sentimento viene associato alla primavera e all’estate, le stagioni del risveglio e del godimento, quando ai sensi è offerta l’occasione di avvertire acutamente il mondo circostante e di convogliare nelle anime un nutrimento esistenziale profondo.
Tuttavia, l’aspettativa della delusione può precludere la possibilità di giovarsi di un incontro nuovo, mancando un’opportunità che la vita sta elargendo per rigiocarsela e ristrutturare l’universo del proprio essere in relazione con l’altro. Se è vero che qualcuno ha ferito, non tutti feriranno. Più si procede a mente e sensi aperti, in contatto con se stessi, più questa probabilità aumenta.
A parte il dolore che le separazioni possono implicare, e che è esso stesso ristrutturante se adeguatamente affrontato ed elaborato, un amore che non sia imprigionato in dinamiche patologiche promuove anche la crescita e l’arricchimento, indipendentemente dalla sua durata, che sia di pochi mesi o di diversi anni. Può accadere che un incontro illumini o solleciti per la prima volta una parte di sé e della realtà, invitandola ad emergere. Ma anche questo, in circostanze psichiche difensivamente strutturate, può mettere in crisi: ci si sente a proprio agio ma forse anche un po’ a disagio, perché quella scoperta sbilancia, mobilizza energie, smuove equilibri faticosamente raggiunti, che fanno sentire più sicuri ma anche più desolatamente infelici. Un incontro nuovo può implicare lo scoperchiamento di un vaso di pandora e un cambio di rotta che non sempre si è disposti o ci si sente in grado di affrontare e vivere, rinunciando di fatto alla pienezza esistenziale.
Fra i vari ostacoli, spesso avanzati come schermo concreto al dispiegarsi dei sentimenti, non mancano anche le cosiddette “condizioni oggettive”, che appaiono difficili da sovvertire: ad esempio i legami validati attraverso i patti matrimoniali, gli anelli di fidanzamento, la presenza di figli, la durata di una relazione in termini di anni. In questo caso, qualora il desiderio non trovi strade parallele e clandestine, come spesso accade, il risultato è quello sopra descritto oppure la repressione totale, con buona pace della salute della mente e del corpo.
L’amore è un sentimento che si può predicare, come avviene nel caso della religione o della cultura in generale, ma anche in questo caso a venir meno è la condizione della fluidità, sostituita da quella del precetto. In tal caso, il comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso” può implicare l’inautenticità, e non è detto, tra l’altro, che tutti amino se stessi con un sano narcisismo. Vi è anche chi in fondo si odia e di cotanta moneta ricambia il prossimo. Prescrivere l’amore per l’altro può rivelarsi estensivamente inutile ed inconsistente in circostanze particolari, come già avvenuto in tempi del passato estremamente bui. Theodor W. Adorno e Hannah Arendt lo hanno sottolineato osservando il tracollo morale generale e devastante della “società rispettabile” tedesca e diffusamente dell’Europa durante il nazismo. Scrive Arendt in Responsabilità e giudizio: “[…] i precetti morali di natura squisitamente religiosa […] nel momento preciso in cui la morale è collassata non hanno giocato, in pratica, alcun ruolo”. E Adorno rincara nel saggio Educazione dopo Auschwitz: “Io non voglio predicare l’amore. Lo considero futile. […] anche perché non tutti ne sono degni. […] L’amore è qualcosa di immediato e fondamentalmente contraddice qualsiasi mediazione”. Insomma, esso è faccenda riguardante esclusivamente chi ama e chi è amato, che sia ricambiato o meno, scaturendo dall’incontro, dalle risonanze, dalla familiarità transferale che pone due persone in connessione profonda, al di là del suo effettivo sviluppo o meno. Per cui nell’ambito di un discorso politico riguardante la convivenza umana, la coabitazione sulla terra, per citare concetti cari a Kant e Arendt, l’attenzione, il rispetto della dignità di chi ci circonda dovrebbe fondarsi su un giudizio di ordine etico, in grado di distinguere il bene dal male e radicato nella propria interiorità, assumendo vigore nel rapporto che si intrattiene con se stessi, di fronte alla propria coscienza, senza schermi, intermediazioni e mascheramenti psichici che nascondano alla propria mente il male che eventualmente si commette. Il rispetto dell’altro non ha niente a che fare con l’amore e con l’odio ma con il “sapere morale”, e questo lascito filosofico di elaborazione e consapevolezza si è rivelato certamente un generoso atto di amore verso l’umanità.
Per cui, l’amore è fluido oppure è sacrificato o vissuto male. E talvolta, quando lo si lascia correre, come canta Battiato, pare che tutto l’universo obbedisca al suo dispiegamento. Tutto si sintonizza e si mette in marcia verso la vita. Sta agli individui disporre di esso, assecondandolo o meno, concedendogli spazi ariosi o piuttosto campi fitti di ortiche.