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    Il “macellaio di Khan Younis”, la “mente” del 7 ottobre, il “volto del male”: ecco chi è il nuovo capo politico di Hamas, Yayha Sinwar, e come la sua nomina può cambiare la guerra a Gaza

    Credit: AGF

    Da giovane era soprannominato "il macellaio di Khan Younis" dai palestinesi. Per Israele invece è la "mente" degli attentati del 7 ottobre. Fautore della riconciliazione con Fatah e dei buoni rapporti con Egitto, Siria e Iran, è uno dei leader più intransigenti del gruppo terroristico palestinese. Ecco la sua storia

    Di Andrea Lanzetta
    Pubblicato il 7 Ago. 2024 alle 14:49 Aggiornato il 7 Ago. 2024 alle 15:42

    Il suo nome di battaglia è “Abu Ibrahim” ma all’anagrafe risulta come Yayha Sinwar ed è stato scelto come nuovo capo politico di Hamas dopo la morte
di Ismail Haniyeh,
rimasto ucciso il 31 luglio
a Teheran, in Iran,
in un attacco attribuito a Israele. Da giovane era soprannominato “il macellaio di Khan Younis” dai palestinesi. Per Tel Aviv invece è la “mente” degli attentati del 7 ottobre, “il volto del male”, o meglio un “morto che cammina”.

    Da oltre dieci mesi però di lui non si ha più traccia. Subito dopo i brutali attentati in Israele costati la vita a quasi 1.200 persone e la libertà a 251 ostaggi, di cui 111 ancora nelle mani di Hamas, compresi 39 già dichiarati morti, Yayha Sinwar è scomparso.
    Migliaia di soldati israeliani, droni, dispositivi di intercettazione e informatori lo cercano in tutta la Striscia. Verosimilmente lui si nasconde sottoterra, nei tunnel sfruttati dal gruppo terroristico palestinese per combattere le truppe di Israele. Intanto però a Doha, in Qatar, lo hanno scelto come nuovo leader politico, mandando un messaggio inequivocabile. Ma cominciamo dall’inizio.

    Alle origini del “volto del male”
    Una settimana dopo gli attentati, un portavoce militare di Tel Aviv, il tenente colonnello Richard Hecht, lo definì “il volto del male”. Ma la sua storia, almeno alle origini, non è così diversa da quella di tanti palestinesi.

    Yayha Sinwar è nato il 29 ottobre del 1962 nel campo profughi di Khan Younis, all’estremità meridionale della Striscia di Gaza, allora occupata dall’Egitto. I suoi genitori provenivano da Ashkelon, quando ancora si chiamava con il suo nome arabo Majdal, ma furono espulsi durante la “Naqba” (letteralmente: la “catastrofe”) del 1948, quando i residenti palestinesi furono costretti a lasciare in massa le proprie case dopo la fondazione di Israele, diventando così dei rifugiati.

    All’epoca Khan Younis era già un territorio difficile. Considerata una delle roccaforti del movimento dei Fratelli Musulmani, nato oltre trent’anni prima al Cairo e da sempre inviso ai regimi egiziani, era un bacino di reclutamento ideale per il gruppo, grazie alla presenza di migliaia di giovani, nati e vissuti in povertà nei campi profughi e che non trovavano altro luogo di riunione se non nelle moschee. Una situazione diventata ancora più esplosiva dopo la Guerra dei Sei Giorni, quando nel 1967 Israele occupò la Striscia di Gaza.

    Tra i ragazzi più attivi nelle proteste contro l’occupazione israeliana c’era anche un giovanissimo Yayha Sinwar, appena diplomatosi alla Khan Younis Secondary School for Boys. Aveva infatti solo 19 anni e si era appena iscritto a un corso di laurea in lingua araba presso l’Università islamica di Gaza quando nel 1982 fu arrestato per la prima volta dalle truppe dello Stato ebraico. Passeranno altri tre anni fino al suo secondo arresto per “attività islamiche” ma a quel punto si sarà già laureato e avrà continuato a segnalarsi per il suo attivismo nel panorama locale affiliato alla Fratellanza Musulmana, da cui nel 1987 nascerà la “costola in Palestina” del movimento, chiamata Harakat al-Muqawama al-Islamiyya (Movimento di resistenza islamica), in acronimo Hamas (che in arabo significa “zelo”).

    Quel 9 dicembre 1987 Sinwar non era tra gli invitati a casa dello sceicco Ahmad Yassin a Gaza a cui si fa risalire la nascita del gruppo ma il suo nome era conosciuto da quasi tutti i presenti, soprattutto dal fondatore e guida spirituale di Hamas. Uno stretto rapporto che negli anni gli darà un’aura di rispettabilità, che saprà sfruttare per salire i ranghi dell’organizzazione.

    Il “macellaio”
    Tanto che a soli 25 anni, nel 1988, sarà tra i fondatori di “al-Majd”, il primo apparato di sicurezza interna di Hamas, creato tanto per punire le presunte spie e i sospetti collaborazionisti con Israele quanto per sopprimere la “devianza sociale” (droga, prostituzione, pornografia, omosessualità, etc) sia tra i membri del gruppo che, idealmente, nella società palestinese.

    Per lo più, all’inizio, si trattava di irrompere nel retro dei negozi in cui si vendevano riviste e video porno ma presto la brutalità di Sinwar e dei suoi arrivò all’omicidio. Alcuni commessi con le sue stesse mani, gesta di cui si vanterà durante i suoi anni in carcere.

    Ma la sua fama di assassino comprende anche storie horror. Un presunto informatore fu punito obbligando il fratello a seppellirlo vivo. Secondo l’intelligence israeliana, fu Sinwar a imporre all’uomo di terminare il lavoro usando un cucchiaio invece di una vanga. Macabro folklore (e propaganda) a parte, il suo nome cominciò a fare paura nella Striscia, tanto da essere soprannominato anni dopo dagli stessi palestinesi “il macellaio di Khan Younis”. Una reputazione di cui si rivelerà all’altezza quando nel 2015 organizzò il sequestro, la tortura e l’omicidio di Mahmoud Ishtiwi, un esponente di Hamas accusato di appropriazione indebita e di omosessualità, entrambi crimini da punire secondo l’organizzazione.

    Alla fine però, nel 1988, fu arrestato dalle truppe di Israele per aver pianificato il rapimento e l’uccisione di due soldati dello Stato ebraico e l’omicidio di un totale di 12 palestinesi, comprese quattro presunte spie. Allora Yayha Sinwar fu condannato a quattro ergastoli per un massimo di 426 anni di carcere. Sembrava finita per lui e invece fu solo l’inizio.

    L’ascesa in carcere
    Nelle galere israeliane Sinwar ha trascorso un totale di circa 23 anni, assistendo da dietro le sbarre alla campagna di attentati terroristici compiuti da Hamas negli anni Novanta in Israele per far fallire gli Accordi di Oslo del 1993, al ritiro unilaterale di Tel Aviv dalla Striscia nel 2005, alla vittoria del suo movimento alle elezioni palestinesi nel 2006 e al golpe del gruppo terroristico del 2007 a Gaza. Ma, lungi dal restare isolato, qui ha imparato l’ebraico ed è diventato esperto non solo della politica israeliana ma anche delle dinamiche interne al suo gruppo e ha aumentato la sua fama tra i detenuti palestinesi, costruendosi il profilo del leader combattente in carcere, anche se fino ad allora la sua lotta era stata prevalentemente limitata alle altre fazioni o ai membri dissidenti del suo stesso movimento.

    Grazie ai suoi buoni rapporti con i fondatori di Hamas e alle informazioni raccolte durante la ricerca dei presunti collaborazionisti, la sua reputazione di puro e duro gli ha concesso un’aura da leader in carcere, il che gli ha anche permesso di mediare con le autorità penitenziarie per conto degli altri detenuti e di imporre la disciplina.

    La valutazione dei suoi secondini parla di un uomo “crudele, autorevole, influente, con insolite capacità di resistenza, astuto, manipolatore, uno che si accontenta di poco, capace di mantenere i segreti e di trascinare le folle”. Per lo più però in cella leggeva: giornali israeliani, libri in ebraico. Tutto ciò che gli permettesse di restare aggiornato e in contatto con il resto del mondo. Quasi si preparasse a un’altra vita, un’opportunità che effettivamente ebbe dopo 22 anni di carcere.

    Alla fine infatti, nel 2011, fu rilasciato insieme a 1.027 detenuti palestinesi e arabi israeliani nell’ambito dell’accordo accettato dall’allora premier Benjamin Netanyahu in cambio della liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit. Un’intesa per cui il capo del governo dello Stato ebraico fu molto criticato perché considerata troppo sbilanciata ma che, in fin dei conti, si inseriva nel solco della tradizione israeliana di fare di tutto pur di salvare la vita dei propri cittadini. Esattamente ciò che gli viene rimproverato di non fare adesso con gli ostaggi ancora nelle mani di Sinwar a Gaza. Ma è il fatto che proprio da qui il leader del gruppo terroristico abbia cominciato la sua scalata ai vertici di Hamas a rappresentare la critica più feroce contro Netanyahu.

    Un terrorista “in carriera”
    Il prestigio acquisito in carcere e l’essere stato inserito tra i nomi in primo piano dell’accordo per lo scambio con Gilat Shalit, al cui sequestro e ai successivi negoziati aveva partecipato anche suo fratello Muhammad, furono fondamentali per l’ascesa di Yayha Sinwar a Gaza dopo il suo rilascio.

    Malgrado non sia mai stato un grande oratore, la sua brutalità e il suo carisma attraevano le folle e allo stesso tempo facevano paura. Anche perché fu capace di stringere sin da subito un’alleanza con uno degli esponenti più potenti all’interno del movimento: Marwan Issa, conosciuto come “Abu Barra”, ucciso da Israele nel marzo di quest’anno in quanto vicecomandante delle Brigate Izz al-Din al-Qassam, il braccio armato di Hamas, in cui stava facendo carriera anche il già citato fratello minore Muhammad.

    Forte di questi legami nel 2012, un anno dopo il ritorno a piede libero, entrò nel Politburo del movimento arrivando a coordinare proprio le attività delle Brigate al-Qassam e diventando così il principale collegamento tra l’ala armata e la leadership politica del gruppo. Intanto tornò alle sue attività di controspionaggio e repressione interna, ormai allargata all’intera Striscia controllata direttamente dall’organizzazione dopo la cacciata di Fatah, avvenuta anche gettando alcuni dei rivali dalla cima degli edifici più alti di Gaza.

    Ma il suo nuovo incarico gli permise soprattutto di svolgere un ruolo politico e militare di primo piano durante le sette settimane della guerra di Israele nella Striscia nel 2014. Tanto che l’anno successivo fu inserito dagli Stati Uniti nella lista dei più pericolosi terroristi a livello globale e nel 2017 fu rieletto ai vertici del movimento, riuscendo a farsi affidare il dipartimento per gli Affari nella Striscia, diventando così il capo di Hamas a Gaza in sostituzione proprio di Ismail Haniyeh, nominato allora leader politico del gruppo.

    Entrato ormai nella cerchia ristretta dei capi del movimento, Sinwar comincerà a coltivare una sua politica. Malgrado la denuncia di un tentativo di assassinio da parte di Fatah nel 2018, negli anni diventerà il principale fautore della riconciliazione con l’Autorità nazionale palestinese (Anp), proponendo addirittura di costituire una forza armata unitaria tra le maggiori fazioni. In qualità di leader a Gaza poi promuoverà anche la ripresa dei rapporti con l’Egitto e soprattutto le buone relazioni con il regime in Siria e con l’Iran. Ma Sinwar è un uomo capace di tessere legami importanti anche all’interno di Hamas, che però non gli garantiranno necessariamente un roseo futuro.

    Il tallone di Achille
    Nell’organizzazione infatti può contare su una rete di alleati fidati, in primis suo fratello Muhammad, tra i responsabili del sequestro di Gilad Shalit nel giugno 2006, figura di collegamento con i sequestratori nella mediazione dell’accordo con Israele e fra i pianificatori del 7 ottobre.

    Soprannominato “il morto vivente” dopo che Hamas ne annunciò il decesso nel 2014, una mossa poi rivelatasi solo uno stratagemma per trarre in inganno l’intelligence di Tel Aviv, Muhammad Sinwar è tra i principali candidati a sostituire Mohammad Deif, il comandante delle Brigate al-Qassam, che sarebbe rimasto ucciso il 13 luglio in un raid di Israele a Khan Younis.

    Sopravvissuto a sei tentativi di omicidio, l’ultima volta nel novembre 2023 quando le truppe israeliane fecero irruzione nel suo ufficio a Gaza City, il fratello del leader di Hamas ha vissuto in clandestinità per diversi anni, coltivando ottimi rapporti all’interno del braccio armato del movimento a Gaza, su cui godrebbe anche di una certa influenza. Tuttavia, una serie di accuse di molestie sessuali, mosse contro Muhammad dall’intelligence israeliana, potrebbero precluderne il personale cammino verso la leadership delle Brigate e danneggiare Yayha, già accusato in passato di aver coperto gli scandali del fratello.

    Un uomo di cui invece Sinwar si fida ciecamente, anch’egli nella lista dei papabili a sostituire Deif, è Rawhi Mushtaha, considerato il suo erede politico a Gaza, co-fondatore del servizio di sicurezza interna al-Majd alla fine degli anni Ottanta e attuale responsabile delle finanze di Hamas nella Striscia. La sua vita sembra speculare a quella del “capo”.

    Eletto per la prima volta nel 2012 al Politburo del gruppo, fu arrestato da Israele alla fine degli anni Ottanta e anche lui rilasciato nell’ambito dell’accordo per la liberazione di Gilad Shalit. Inserito dagli Usa nella lista dei principali terroristi a livello globale nel 2015 insieme a Sinwar, prima dell’offensiva lanciata da Israele a Rafah nel maggio scorso, gestiva le attività di Hamas presso il valico con l’Egitto. Un alleato importante per il nuovo leader, che però sembra scomparso da quando le truppe israeliane sono entrate nella città più meridionale della Striscia, dove potrebbe essere rimasto vittima di uno dei tanti raid aerei dello Stato ebraico.

    Vivo e vegeto invece è il suo più acerrimo rivale interno: il predecessore di Haniyeh, Khaled Meshaal. Già capo dell’Ufficio politico di Hamas dal 1996 al 2017, il leader storico aveva assunto la guida ad interim dell’organizzazione subito dopo l’omicidio del suo successore e figurava tra i più credibili candidati alla leadership del movimento. Un cammino che, secondo l’emittente saudita al-Hadath, sarebbe stato proprio Sinwar a stroncare, opponendo il veto al suo nome perché, pare, non fosse abbastanza gradito all’Iran.

    Un improbabile negoziatore
    Per Sinwar, Teheran è infatti l’unico alleato di cui Hamas non può fare assolutamente a meno. “Se non fosse stato per l’Iran”, disse in un discorso pronunciato nel 2021, “la resistenza in Palestina non avrebbe avuto le sue attuali capacità”. Questo però non fa di lui una marionetta nelle mani della Repubblica Islamica, come qualcuno in Israele vorrebbe far credere, anzi.

    Negli anni, sia in carcere che da leader del gruppo terroristico a Gaza, ha alternato una furia violentissima contro Israele e contro gli ebrei – per cui, disse una volta in prigione, “non c’è posto in Palestina” – a periodi di pragmatismo, sostenendo una serie di accordi con Tel Aviv per tregue provvisorie e scambi di prigionieri e soprattutto promuovendo la riconciliazione con gli acerrimi rivali di Fatah, venendo persino criticato dall’ala più intransigente, di cui teoricamente dovrebbe far parte anche lui, del suo stesso movimento.

    La sua nomina però assume un altro significato per la guerra in corso da dieci mesi a Gaza e costata quasi 40mila morti. Sinwar è considerato il nemico pubblico numero uno in Israele, che lo accusa di aver architettato – insieme a Deif – gli attentati del 7 ottobre e che cerca da anni di ucciderlo. La sua leadership rappresenta un’aperta sfida al governo di Tel Aviv, che già fatica a trattare con Hamas ma che non intende sedersi al tavolo dei negoziati per una tregua nella Striscia con la “mente” degli attacchi sanguinari dello scorso anno. Tanto che ieri il segretario di Stato Usa Antony Blinken ha tentato di addossare al nuovo leader del gruppo la responsabilità di accettare o meno un accordo con lo Stato ebraico. 

    D’altra parte, nascosto nei tunnel sotto Gaza, Sinwar difficilmente potrà guidare in maniera effettiva ed efficace la politica di Hamas, i suoi investimenti in Turchia, Europa e Africa e i complicati rapporti internazionali dell’organizzazione con l’Iran e i suoi alleati in Medio Oriente. È probabile quindi che la sua elezione, avvenuta dopo l’uccisione dei principali mediatori del movimento terroristico, come Haniyeh e Saleh al-Arouri, allontani ancora di più un accordo per un cessate il fuoco. Almeno finché Sinwar resterà in vita.

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