Da quando sono nato ho visto ripetersi per 19 volte la data del 2 ottobre. Quella del 2016, tuttavia, non è stata uguale alle altre. Quel giorno, infatti, dopo 14 ore di volo e uno scalo a Francoforte, sono arrivato a Miami, dove mi trovo tutt’ora.
Sono venuto qui per unirmi ai sostenitori della campagna elettorale in favore di Hillary Clinton. A dir la verità sono sempre stato un sostenitore piuttosto tiepido della candidata democratica (in particolare, della sua politica estera) e se fossi stato un cittadino americano probabilmente alle primarie avrei votato per Bernie Sanders.
Le motivazioni che mi hanno spinto a intraprendere questa esperienza sono principalmente due, una personale e una più “comunitaria”.
La prima consiste nel fatto che questa tornata elettorale potrebbe avere una portata epocale, ossia consegnare la Casa Bianca, per la prima volta nella storia, a una donna, e se ciò dovesse accadere voglio essere presente.
La seconda motivazione è quella legata al suo avversario. Personalmente, ritengo che Donald Trump sia un uomo estremamente pericoloso e credo sia un dovere di ogni persona mobilitarsi per evitare che diventi presidente degli Stati Uniti.
Clinton non sarà perfetta, ma il futuro prospettato dal tycoon newyorchese è troppo inquietante perché tutte le altre parti in campo non collaborino a scongiurarlo.
Sono così entrato a far parte dei sostenitori di Clinton e qui ho scoperto una prima cosa inaspettata: gran parte di chi collabora alla campagna lo fa per lavoro.
Le campagne elettorali
La paga è buona (si guadagna più di un insegnante italiano), tuttavia l’attività è di sette giorni su sette e si possono talvolta superare le 12 ore lavorative.
Questo mestiere ovviamente non è stabile (come si può facilmente immaginare dato che una campagna elettorale dura tre o quattro mesi al massimo) e dunque chi sceglie questa vita finisce per essere una sorta di nomade, che si muove di stato in stato mettendosi al servizio di vari candidati.
I due sbocchi più comuni di questa carriera sono diventare dirigente di azienda (l’esperienza in campagne politiche viene considerata molto positivamente nei colloqui di lavoro), oppure entrare in politica e finire per candidarsi in prima persona (è stato il caso, per esempio, di Barack Obama).
Questo mestiere si può considerare come una sorta di via di mezzo tra la propaganda politica e la campagna pubblicitaria, e talvolta, visti i metodi utilizzati dai candidati americani, pare che le due cose si sovrappongano.
L’organizer ha l’onere di garantire certi risultati in ogni fase e lo fa sfruttando l’aiuto dei volontari, forza lavoro imprescindibile di ogni campagna elettorale.
La prima fase del nostro lavoro consiste nel far registrare al voto gli elettori. Questo processo può variare leggermente da stato a stato. Per esempio, in Florida chi ha precedenti penali non può farlo e la registrazione è un prerequisito necessario per accedere al voto.
Per chi lavora con i democratici il momento delle registrazioni è particolarmente importante in quanto la storia insegna che quando vi è grande affluenza alle urne i progressisti tendono a vincere sui conservatori.
Terminata questa prima tappa comincia la seconda, che è quella in cui ci troviamo tutt’ora: la campagna porta a porta (canvass door by door) e le telefonate (phone banking).
Dalla dirigenza del partito vengono inviate liste di potenziali elettori che vivono in determinate zone. In queste liste ci sono nomi, età, indirizzi e numeri di telefono.
Il lavoro consiste nell’andare porta a porta o telefonare per convincere gli indecisi a votare per i democratici e collaborare come volontari, e quindi svolgere, a loro volta, le stesse attività.
Insieme alle liste, il partito fornisce anche una sorta di copione da seguire per aiutare i più inesperti. Esso fornisce suggerimenti di carattere psicologico come il tono da scegliere durante una discussione e consigli su come rapportarsi con gli interlocutori più ostili (prima regola: mai entrare in casa di nessuno).
Ovviamente più volontari vengono reclutati, maggiori saranno i numeri di indecisi portati al voto e minore sarà la mole di lavoro di ciascuno.
La giornata tipo di un volontario
La giornata tipo è dunque strutturata in questo modo: mattinata dedicata alla campagna porta a porta; ritorno all’ufficio centrale per l’ora di pranzo; riunione di metà giornata con relazione riguardo al numero di nuovi volontari e votanti reclutati; phone banking; riunione di fine giornata; trasferimento dei documenti cartacei su supporti online.
Il lavoro porta a porta può essere gioia o delusione, pena o invidia. È decisamente più interessante che fare telefonate (e, ci dicono i risultati, anche più proficuo) poiché si può entrare umanamente in contatto con ogni tipo di persona.
Ti può così capitare di incontrare l’uomo scortese che ti sbatte la porta in faccia senza farti nemmeno parlare e la vecchina che ti offre da bere e ti racconta della sua infanzia; la fanatica religiosa che ti chiede informazioni sui punti della Clinton a proposito dei matrimoni gay e la coppia omosessuale che vorrebbe un cartello da attaccare davanti a casa per sostenere i democratici; il ricco snob che ha il Suv in garage e il cane da guardia e il ragazzo che vive in una casa minuscola coi suoi cinque fratelli più piccoli e ti domanda se hai da offrirgli un lavoro. È, insomma, uno spaccato della società americana.
Dove si gioca la partita
Non bisogna, infine, pensare che tutti gli stati siano uguali. Ci sono alcune zone dove semplicemente i candidati presidenti non vanno perché sanno già che è uno stato pre-assegnato, un po’ come se la destra non facesse campagna elettorale in Toscana perché sa che quella è una zona di sinistra.
I democratici, per esempio, sono consapevoli di avere New York e la zona del nordest. Gli stati del Midwest invece sono tradizionalmente rossi (che, in questo caso, significa repubblicani).
Le elezioni, quindi, si giocano sostanzialmente su chi riesce a conquistare gli “stati indecisi”. Tra questi vi è per l’appunto la Florida, vera e propria chiave di volta per il successo di una campagna elettorale.
Celebre il caso di Al Gore che nel 2000 perse le elezioni perché sconfitto per 537 voti nel cosiddetto Sunshine State. Questo fa sì che la zona dove mi trovo ora sia una sorta di centro dell’attenzione durante i mesi della corsa al voto.
Durante la mia permanenza di un mese e mezzo sono passati di qui la stessa Clinton, il candidato democratico alla vicepresidenza Tim Kaine, Al Gore, Barack Obama (due volte), Michelle Obama e Bill Clinton, ma anche Donald Trump, il candidato repubblicano alla vicepresidenza Mike Pence, senza contare celebrità come Jason Collins, Pusha T, Jon Bon Jovi e Jay Z.
Essere membro del gruppo di volontari della campagna dà il non secondario vantaggio di poter prendere parte a molti di questi eventi mondani.
Continua così la campagna, ma si approssima alla fine. I sondaggi diventano sempre più incerti, sembra profilarsi un serrato testa a testa, e il lavoro di ora in ora più frenetico.
I voti anticipati (early vote) hanno avuto inizio il 24 ottobre, ma l’Election Day è l’8 novembre. Dopo la mezzanotte scopriremo chi il popolo americano avrà scelto per guidare il paese più potente al mondo.
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