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    “Io, vittima dell’infibulazione, vi racconto l’atroce dolore delle mutilazioni genitali”

    La storia di Sein che da piccola ha subito l'infibulazione e ora lavora affinché nessun'altra bambina provi più lo stesso dolore

    Di Marta Perroni
    Pubblicato il 6 Feb. 2019 alle 12:39 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 12:08

    “Era una domenica mattina. Mi sono svegliata molto presto e con un secchio sono andata a prendere l’acqua, in modo che poi sarei potuta andare in chiesa. Quando sono tornata, ho trovato cinque donne nella mia capanna. Ero un po’ scioccata, sono comunque entrata e una delle donne ha chiuso la porta così che non potessi fuggire”.

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    “Nilichoona sitaki na wengine wapitie kabisa” che in lingua masai significa “la mia opinione è che non voglio che altre sopportino questo”.

    Sein Paul è una ragazza della Tanzania, ha 18 anni ed è l’ultimogenita di una famiglia in gravissime difficoltà economiche ed è anche una delle 200 milioni di ragazze che in 30 paesi del mondo hanno subito la violenza della mutilazione genitale.

    Oggi Sein è formatrice di Amref Health Africa e tramite i suoi sforzi centinaia di ragazze del villaggio di Elerai, nel nord est della Tanzania, sono riuscite a ribellarsi al “taglio”.

    “Avevo appena iniziato la classe quinta alla Elerai Primary School ma mia madre e i miei fratelli avevano deciso che dovevo smettere di andare a scuola. Ero così triste, amavo davvero la mia scuola”. Sein era ancora piccola quando il padre muore e viene cresciuta dalla madre e dai due fratelli maschi che decidono di non farla più studiare.

    “Non possedevamo mucche o capre e in casa volevano che mi sposassi in modo che con la dote potessero poi acquistare delle mucche. Così hanno pensato di farmi circoncidere in modo da trovare un uomo da sposare. Come sapete, le ragazze Maasai non si possono sposare se non sono state circoncise”.

    Sein è in quinta elementare e comincia a cambiare aspetto fisico ed entrare nella fase dello sviluppo, ed ecco che, come centinaia di migliaia di bambine della sua età, è pronta per ricevere la terribile violenza della mutilazione genitale.

    A tutte quelle bambine mentre vengono mutilate viene detto di smettere di piangere, di non gridare “se piangi” è questo il messaggio “non sei degna di tuo padre e della tua famiglia”.

    L’infibulazione ha origini antichissime, rappresenta il dominio maschile sul corpo delle donna ed è realizzata come un vero e proprio rito di passaggio all’età adulta.

    Se una bambina non è infibulata non potrà trovare marito e, come racconta Sein, tutta la sua famiglia verrà isolata e non riceverà la dote che le spetterebbe dal matrimonio e aiuterebbe economicamente tutto il nucleo familiare.

    La vita collettiva di alcune popolazioni è importantissima e venire isolati dalla propria comunità significa non riuscire a sopravvivere. Questo proprio perché le difficili condizioni di vita in alcuni paesi africani, come la Tanzania, permettono la sopravvivenza solo se si vive in gruppo.

    Così, una domenica mattina come tante bambine, anche Sein si sveglia e va a prendere l’acqua al pozzo per poi recarsi in Chiesa, ma una volta tornata al villaggio trova cinque donne ad aspettarla. Non ha idea di cosa starà per succederle e, appena entra nella sua capanna, le donne chiudono la porta alle loro spalle per non farla fuggire.

    “Sapete cosa mi hanno fatto? Quelle donne mi hanno bloccato, immobilizzato e mi hanno circonciso. E’ stata un’esperienza molto dolorosa, un dolore mai provato prima”.

    Sì perchè sono le donne stesse a compiere le mutilazioni, non solo non la rifiutano ma sono complici nel trasmetterla alle figlie.

    Sono madri che sacrificano ad una tradizione imposta dai padri la salute, il benessere e la serenità delle loro bambine. Immerse in una cultura fondata sui valori patriarcali, considerano se stesse “degne” solo se il loro organo genitale è cucito.

    Ma è così che Sein, già da quell’istante terribile, decide e giura di assicurarsi che almeno nessuna ragazza della sua zona sia mai più sottoposta alla pratica che lei stessa aveva subito.

    “Sono veramente grata ad Amref Health Africa per il suo lavoro con noi, sono sicura che possiamo ancora rispettare e seguire le nostre buone pratiche tradizionali e culturali senza dover far male a delle ragazze”.

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