Ho sempre fotografato esseri umani vivi. Qualche volta mi è capitato di fotografarli da morti, come un attentatore suicida a Mosul, nella piazza della municipalità, di fronte al ponte al Hurria, crepato da una ventina di giorni, il femore rotto, le gambe ridotte a ossa spolpate, il cranio sfondato e bruciato, nella smorfia di dolore di quell’azione estrema. Ma stavolta è stata più dura.
X. è morto davanti alla telecamera. È morto nel mentre. Mentre filmavo e mentre il dottore eseguiva la rianimazione, ma non è riuscito a salvarlo. X. era un bambino di 4 mesi, malnutrito, ricoverato all’ospedale al Thoura di Hodeida, una città nel nord dello Yemen sul mare, meta di vacanze per gli abitanti della montagna yemenita, e per le famiglie benestanti di Sanaa, capitale del paese.
Tuttora è il posto preferito dalle coppie per la luna di miele, se proprio non si può andare a Socotra, la stupenda isola dell’Oceano Indiano che è parte del territorio nazionale. Hodeida è anche il luogo dove vivono migliaia di anime povere, solitamente pescatori, contadini, addetti delle pulizie, più facilmente indiani o somali.
È una delle città con la percentuale più alta di persone che vivono negli slums e nelle campagne in condizioni sotto la povertà, con lavori giornalieri e saltuari, malnutriti e con accesso limitato ad acqua pulita e alle cure mediche.
Nell’estate 2016 un bombardamento ha completamente piegato il quartiere dei pescatori prospiciente al mare. L’obiettivo militare erano i possedimenti, le ville e le proprietà del potente sheik Naji Jumaan al Jidri, preminente personalità della tribù houti, predicatore, guida religiosa.
Ma di fatto la coalizione araba guidata dall’Arabia Saudita che a marzo del 2015 ha intrapreso una campagna militare nello Yemen per arginare l’avanzata dei ribelli sciiti houti ha azzerato anche l’area intorno alle proprietà dello sheik. Così facendo, ha anche distrutto la moschea frequentata dalla comunità indiana musulmana del posto, dividendo e smembrando famiglie e successivamente costringendo molti uomini diventati nullatenenti a prendere la strada del mare, ufficialmente per pescare, ufficiosamente per dedicarsi ad attività di pirateria.
A Hodeida ci sono solo due ospedali pubblici. Le cliniche private sono molte ma costano. L’economia di questa città che nei tempi d’oro ruotava sul turismo e sulla fabbrica di succhi di frutta e imbottigliamento di mango più famosa di tutto lo Yemen, la Dico (Dihrim company), è crollata a picco.
Capannelli di mendicanti bambini si affacciano a ogni angolo di strada. L’ospedale al Thoura, il più grande, pubblico e in centro città, al mattino presto è un girone infernale. Tutti gridano dietro qualche porta, tutti premono per una firma del dirigente dell’ospedale. I più bivaccano, soprattutto uomini. I miliziani si muovono dappertutto con i kalashnikov in bella vista.
Quando sono arrivata al reparto malnutrizione X. era ancora sul lettino, con la cannula per l’ossigeno saldamente fissata al suo naso scheletrico. Ma X. era già uno scheletro: la radiografia più impietosa di una morte annunciata.
Non chiamo X. così perché voglio proteggere la sua identità. X. non ha nome. Sua madre non gliel’ha nemmeno messo, quando lo ha partorito. Gli ha dato la vita ed era già sfiancata, disidratata.
Si è fatta portare, con fatica, dalla campagna alla città. E lo ha depositato al dipartimento per i bambini malnutriti fondato anni fa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Dopo qualche giorno è tornata indietro per badare agli altri cinque figli, facendo cambio con la madre, la nonna del bambino, Jumah.
Jumah ha assistito X. fino alla sua morte. Nei cinque minuti in cui il decesso del bambino è stato decretato con certezza, ha compiuto pochi gesti precisi, veloci. Senza lacrime ma con grande pietà: ha aiutato l’infermiera a estrarre la cannula dell’ossigeno dal naso del bambino.
Ha ripulito il suo viso dal muco, affinché le mosche non gli si posassero più sulle palpebre con quella insistenza irriverente; lo ha spogliato, lasciandolo sul letto qualche minuto.
Poi ha ricomposto il cadaverino nella sua stessa coperta, come un sudario, stringendo il tessuto sui piedini invisibili e sul cranio spolpato. Ha infilato tutto il resto nella sporta di carta plastificata che era tutto quello che si era portata dietro per quattro mesi di permanenza.
È solo rimasta qualche minuto sul ciglio del letto senza dire una parola, mentre io documentavo, fotografavo, filmavo. So che la sua frustrazione era grande e che ha odiato la mia invadenza. Ma è stato il prezzo che ho pagato per fare sapere e per fare vedere che qui, in Yemen, si muore di guerra. Si muore di fame.
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