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    Il viaggio di Intersos a Lesbo, l’isola dei migranti dimenticati

    Credit: Martina Martelloni/Intersos

    A Lesbo dopo l'incendio del campo di Moria le condizioni dei migranti sono sempre più inaccettabili. Il diario di Martina Martelloni di Intersos dall'isola greca

    Di Martina Martelloni
    Pubblicato il 4 Nov. 2020 alle 18:19

    Di Lesbo ricordo le famiglie afghane. Numerose, sorridenti, tenaci. I loro bambini hanno giocato in strada per otto giorni, sotto il caldo sole di settembre e trasformando qualsiasi oggetto trovato a terra in qualcosa di eccezionale. Con l’immaginazione riuscivano ad evadere da quei tre chilometri di strada che separavano il campo di Moria, distrutto dall’incendio nella notte tra l’8 e 9 settembre, e la città di Mytilene, capoluogo dell’isola.

    Sono arrivata a Lesbo tre giorni dopo che le fiamme avevano oramai devastato l’80 per cento del campo. La prima cosa che ricordo di aver visto sono le file. File lunghissime e caotiche di persone ammassate. Donne da una parte, uomini dall’altra. Accadeva ogni qualvolta una Ong o associazione di volontariato si recava su quel tratto di strada, dove i migranti erano accampati, per poter consegnare loro beni di prima necessità come acqua, cibo, vestiti. Tutto questo si è ripetuto per otto estenuanti giorni. Nessuno di loro aveva possibilità di uscire, le forze dell’ordine avevano bloccato la strada impedendogli di recarsi in città.

    Credit: Martina Martelloni/Intersos

    Tutte le mattine raggiungevo quei tre chilometri di accampamento e, ogni singola volta durante il tragitto in auto, mi auguravo con forza di riuscire a superare il check point. Dovevo trattare con la polizia, convincerli della mia identità come reporter per Intersos, organizzazione umanitaria italiana impegnata in emergenze umanitarie come quella che si stava consumando su quel tratto di strada. A Lesbo, in Grecia, Europa.

    A quasi due mesi da quella notte, le testate giornalistiche hanno distolto la loro attenzione dai fatti di Moria e dalle condizioni di vita di 12 mila persone. Ad oggi, 9.871 rifugiati e richiedenti asilo risiedono nell’isola di Lesbo, la maggior parte della popolazione proviene dall’Afghanistan (76 per cento), Siria (7 per cento) e Repubblica Democratica del Congo (7 per cento). Le donne rappresentano il 23 per cento della popolazione e i bambini il 39 per cento, di cui più di 7 su 10 hanno meno di 12 anni. Il 5 per cento di loro sono minori non accompagnati o separati, provenienti principalmente dall’Afghanistan.

    Credit: Martina Martelloni/Intersos

    L’elenco dei numeri non si arresta mai quando si parla di migranti. Una strana correlazione dell’umano al numerico avviene ogni volta in cui si cerca di fare ordine sul fenomeno migratorio, in qualunque paese esso si manifesti. Talvolta però il valore numerico supera quello dell’umano, e quando questo accade ci si abitua a tutto, anche alla sofferenza altrui. In 7.500 persone, dalla notte dell’incendio, si trovano ora nel nuovo campo allestito dalle autorità del governo greco con il supporto di Unhcr. Da pochi giorni gli è stato dato un nome: Mavrovouni.

    Nessun migrante voleva entrarci. Hanno resistito per più di una settimana, vivendo in strada senza nessun tipo di servizio, sopravvivendo alla giornata con il solo aiuto delle organizzazioni umanitarie presenti sul posto e affidando al mare vicino la loro igiene personale, oltre che al gettarci dentro ogni pensiero buio.

    Credit: Martina Martelloni/Intersos

    La stanchezza, il caldo, l’assenza di ogni tipo di bene di prima necessità, hanno reso impossibile anche la più ostinata resistenza in quelle condizioni debilitanti. Così, sono tornate a formarsi le file. Prima le donne con bambini, le famiglie, poi, a seguire, gli uomini soli. Tutti, ad uno ad uno, hanno fatto accesso in quello che viene spesso definito come “Moria 2”, un campo emergenziale allestito in un ex poligono di tiro situato nella località di Kara Tepe.

    La ferrea convinzione e l’essere restii a tornare in un altro agglomerato di tende, non era effetto di mera testardaggine o ribellione immotivata. Resistere significava protestare. Manifestare fino ad urlare i propri diritti, contro la costrizione del vivere in un tempo sospeso e in uno spazio limitato. Dopo aver trascorso mesi p anni tra le tendopoli di Moria, la parola campo rievoca loro la detenzione.

    Credit: Martina Martelloni/Intersos

    “Non ho altra scelta. Non voglio farlo ma credimi, non ho altra scelta”. Ho sentito ripetermi questa frase decine di volte, nei giorni delle lunghe file per entrare nel nuovo campo. Il bisogno incessante di dirlo è chiaramente un grido di aiuto all’Europa. Yasamin me lo diceva sempre in quei giorni che, alla fine, per forza di cose tutti sarebbero entrati. Mentre fissava dritto dentro l’obiettivo della mia fotocamera, le sue parole fuoriuscivano come lo scorrere del fiume. Impetuose e potenti. All’età di 21 anni Yasamin ha lasciato il Pakistan con la madre e i suoi due fratelli. Le sue origini sono afghane ma, per via di una guerra e dei conflitti interni che lacerano il suo paese da anni, erano emigrati già da tempo nel territorio confinante.

    Il viaggio che porta a Moria è sempre la parte più straziante del racconto, la maggior parte dei migranti tende a sorvolare sui particolari. La narrazione si suddivide solitamente in tre tappe: partenza, transito, arrivo. Non si racconta nulla su ciò che accade mentre si viaggia. Riparlarne significa ricordare e la maggior parte di loro non può permettersi di farlo.

    Credit: Martina Martelloni/Intersos

    Per raggiungere l’isola i migranti attraversano il mare Egeo partendo dalle vicine coste della Turchia. Come per ogni traversata che sta segnando il fenomeno migratorio verso l’Europa del Sud negli ultimi anni, non tutti ce la fanno a toccare terra. La teoria e la pratica di Moria, come spesso accade, sono in totale contraddizione, da centro di identificazione e registrazione temporaneo, Moria si è trasformato in un campo di prigionia.

    Gli accordi del 2016 tra Unione europea e Turchia prevedono la presenza di un hotspot sulle isole greche, tra cui anche Lesbo. La permanenza dei migranti nel campo dovrebbe durare giusto il tempo di attesa sull’esito della domanda di asilo, ricollocamento o ricongiungimento familiare. Chi si astiene dal presentarla o si vede respingere la domanda, è costretto a fare ritorno in Turchia. Quello che è accaduto è esattamente il suo contrario. Lo stato di attesa non si è mai interrotto per la maggior parte dei migranti di Moria. C’è chi, in quel campo ora lacerato dalle fiamme, ci ha vissuto per uno, due, persino tre anni. Nessuno sa quando potrà lasciare l’isola e ricominciare a vivere in un altro paese europeo. Questo non è dato loro sapere.

    Credit: Martina Martelloni/Intersos

    Parvana l’ho conosciuta al mio penultimo giorno di permanenza sull’isola. Si è avvicinata girandomi intorno. Grandi passi per grandi cerchi che diventavano sempre più piccoli fino ad arrivare così abbastanza vicino da guardarmi, sorridermi e chiedere il mio nome. Ha solo 10 anni, ma parla inglese con grande accuratezza e scelta lessicale. Anche lei è afghana e a Moria c’è rimasta per nove mesi insieme alla mamma, al papà e ai suoi due fratelli minori.

    Credit: Martina Martelloni/Intersos

    La parola Moria l’ha ripetuta decine di volte quel giorno, quasi come fosse una sorta di intercalare che racchiude in sé tanti di quei ricordi ed esperienze che esigono molto tempo prima di poter essere metabolizzati. “In Moria I was sad, very sad. Now, I want to be happy”, sussurrava Parvana mentre continuava a girarmi intorno, scrutando chi fossi con quella curiosità che solo a 10 anni si può avere.

    Della notte dell’incendio si parla poco; il fumo improvviso, il caldo che arroventava l’aria, le fiamme sulle tende, sui vestiti. La fuga. I giorni successivi sono stati scanditi dall’andare e tornare da quelle ceneri, tentando disperatamente di recuperare qualcosa. Abbigliamento, scarpe, oggetti personali, cose preziose per il valore acquisito nel tempo condiviso in quel campo oramai andato distrutto.

    Credit: Martina Martelloni/Intersos

    In quei giorni trascorsi a Lesbo con i miei colleghi di Intersos, percepivo spesso un senso di disorientamento nel capire cosa poter fare, in che modo rendermi utile, cosa rispondere a quelle domande continue delle mamme sul futuro dei loro figli. Le mamme di Lesbo sono donne che custodiscono una forza interiore travolgente, mantengono quella lucidità e fermezza che consente loro di sopravvivere con un peso infinito sulle spalle.

    “Ogni mattina mi sveglio piangendo ed ogni sera mi addormento piangendo. Mi sento in colpa per aver portato qui mia figlia, ha solo tre anni ed io non le sto dando la vita che merita”. Shoku è nata nella provincia di Herat, in Afghanistan, e un pomeriggio mi ha detto proprio queste parole. Il pianto e il senso di colpa che si alternano e si sommano, ogni giorno, da 14 mesi.

    Credit: Martina Martelloni/Intersos

    Di Shoku e delle altre donne presenti ora nel nuovo campo, Intersos ha iniziato ad occuparsi da settimane, distribuendo tenda a tenda i “dignity kits”, contenenti beni necessari come assorbenti, indumenti intimi e di igiene. Cose banali e scontate per tutte e tutti noi, cose rare e preziose per chi vive in un campo. Le donne sono principalmente originarie della Somalia (35 per cento), della Repubblica Democratica del Congo (33 per cento) e dell’Afghanistan (26 per cento) e una componente meno cospicua proviene invece dalla Siria, dal Sudan, dall’Eritrea e da altri paesi. La stragrande maggioranza delle donne single ha un’età compresa tra 18 e 25 anni (49,9 per cento) mentre una componente significativa è compresa tra i 26 e 40 anni (33,1 per cento). Le donne single con più di 40 anni corrispondono al 17,1 per cento della popolazione totale.

    Credit: Martina Martelloni/Intersos

    Questo tipo di attività ha una doppia valenza: la prima è finalizzata al non lasciare le donne sprovviste di beni fondamentali alla loro dignità, la seconda è la conoscenza delle storie, delle vite e delle problematiche di queste giovani donne e mamme esposte ad un livello di insicurezza incalcolabile. Non c’è elettricità nel campo, non c’è acqua corrente, il cibo scarseggia e gli effetti psicologici del vivere in condizioni disumane incidono ancora di più sull’esplodere di atti di aggressione, abusi, molestie, vere e proprie violenze a danno delle donne. Fornire gli strumenti utili ad una messa in sicurezza della loro persona fisica, diviene una priorità assoluta.

    In questi giorni a Roma, e in Italia in generale, si respira quell’aria di tensione e paura per un prossimo lockdown, come risposta al continuo aumentare della curva dei contagi da Covid-19. Per i migranti di Lesbo la “chiusura totale” è una condizione già nota, già assaporata, già vissuta. Costituisce il loro passato e il loro presente, con o senza pandemia.

    Credit: Martina Martelloni/Intersos

    Poco tempo fa ho inviato un messaggio ad Abdullah, un ragazzo siriano di 20 anni, di cui l’ultimo anno e mezzo trascorso a Moria. Gli ho chiesto come si sente ogni giorno nello svegliarsi in quella tenda troppo piccola per lui e le altre dieci persone con le quali convive. Mi ha risposto immediatamente, come sapesse già quali parole utilizzare per poter esprimere alla perfezione il suo stato d’animo.

    “La sensazione che mi devasta è la disperazione. Pensare mi stanca, la speranza mi stanca. Vado a pesca ogni tanto per non pensare o se proprio devo farlo è per cercare un posto dove potermi lavare. Ho 20 anni ma ogni giorno mi sembra di perderne uno. Non studio, non lavoro. Sogno un futuro sconosciuto in questa tragica realtà”. Per l’Europa Lesbo è un’isola piena di migranti. Per i migranti Lesbo è questo: una tragica realtà e l’Europa un futuro sconosciuto.

    Credit: Martina Martelloni/Intersos
    Credit: Martina Martelloni/Intersos

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