Le proteste in Iran contro il carovita e la corruzione che vanno avanti dal 27 dicembre 2017 e sfociate in duri scontri con le forze di polizia, hanno causato finora la morte di almeno 22 persone.
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Scoppiate giovedì scorso a Mashhad – una città molto conservatrice di due milioni di abitanti nel nord-est dell’Iran – come proteste contro l’aumento dei prezzi e la corruzione, le dimostrazioni si sono diffuse a macchia d’olio in molte città del paese.
Il governo del presidente iraniano Hassan Rouhani ha inizialmente tollerato le manifestazioni, ma dopo l’escalation delle violenze ha cominciato a reprimere il dissenso con numerosi arresti.
Per comprendere meglio la portata del fenomeno che si presenta come la più grande dimostrazione di dissenso pubblico dalle manifestazioni del 2009 contro la rielezione di Ahmadinejad, TPI ha chiesto a Holly Dagres, analista ed esperta di Medio Oriente, relatrice per Bbc News, New York Times e altre testate internazionali, nonché curatrice della newsletter sull’Iran, di risponde ad alcune domande.
Facciamo il punto: che tipo di manifestazioni sono?
La popolazione, senza un vero leader e in modo del tutto autonomo, è scesa in piazza per manifestare contro il caro vita e la corruzione.
Durante le proteste ci sono stati alcuni slogan contro il presidente Rohani e questo dimostra che le manifestazioni sono contro l’intero establishment della Repubblica Islamica e non sono soltanto – come fu nel 2009 – di una parte contro un’altra, all’epoca i riformisti contro i conservatori.
Quello che è interessante rispetto alle manifestazioni del 2009 non è tanto il numero dei manifestanti – quelli di oggi non sono quanti erano allora, lì si parlava di milioni qui di migliaia – quanto la diffusione geografica delle proteste. È stata la reazione del governo a far diffondere in modo ancora più consistente le manifestazioni in tutto il paese.
È davvero la protesta dei giovani?
Secondo me no, perché il tema della protesta non è la disoccupazione giovanile. Le manifestazioni sono nate per le condizioni economiche, contro la corruzione e l’establishment intero.
La protesta attraversa tutta la società iraniana, in piazza ci sono non solo i giovani ma anche 50enni e 60enni. In questo senso bisogna ricordare che ci sono migliaia non milioni di persone, ed essendo l’Iran un paese pieno di giovani, in strada si dovevano contare ben altri numeri.
Quali sono le differenze rispetto alle proteste del 2009?
Le proteste avvennero subito dopo le elezioni presidenziali che videro trionfare il presidente conservatore Ahmadinejad, l’ “onda verde” nacque contro i brogli elettorali e solo successivamente si trasformò in una protesta a favore delle libertà cvili e per un ampliamento dei diritti.
Questa non è una protesta che ha a che fare con la politica in senso elettorale, non sono i riformisti che manifestano contro i conservatori. Al momento la protesta non ha cappelli o leader politici.
Questa è la differenza più interessante rispetto al 2009. All’epoca, il leader del movimento era Mir-Hosein Moussavi, che era anche candidato presidente e che fu arrestato nel 2011. Oggi questo non accade, non c’è nessuno che possa mettere un cappello sulle manifestazioni.
L’aspetto è duplice: è un rischio perché qualcuno potrebbe strumentalizzarle, dall’altro è anche un vantaggio perché in questo modo il regime non può puntare il dito contro nessuno e dire “sei tu che stai fomentando le violenze”.
Cosa pensa delle proteste delle donne? Come iraniana si sente vicina a loro pur non essendo lì?
Non è tanto questo il tema delle manifestazioni. La protesta è nata per questioni economiche, contro la corruzione, il popolo iraniano è perfettamente consapevole delle privazioni a cui è sottoposto. C’è una situazione che comunque si vive in molte altre parti del mondo.
La protesta ha istanze più ampie che riguardano le condizioni di vita della popolazione e per questo mi auguro che il governo la smetta di reprimere il dissenso e ascolti le richieste che arrivano dalla piazza, e che soprattutto ponga fine alla repressione dura che già ha adottato contro i manifestanti perché questa repressione, che ha fatto diffondere ancor più le proteste, potrebbe causare un aumento della rabbia.
Quella delle donne è una protesta destinata a crescere?
L’attuale protesta in Iran non ha a che fare con i diritti delle donne, anche se è un tema sempre presente nel paese, come lo era ai tempi dello Shah di Persia e adesso con la Repubblica Islamica, questo non è il fulcro fondamentale delle proteste di oggi, ciò non vuol dire che non sia importante.
Pensa che queste manifestazioni possano rappresentare una rivoluzione?
Assolutamente no. È vero che tra i manifestanti ce ne sono stati alcuni che hanno lanciato slogan contro il dittatore e si sono lamentati dell’intero establishment, ma l’Iran ha una tradizione di proteste contro lo Shah, contro gli Stati Uniti, ma questo non vuol dire che le persone in piazza vogliono davvero un cambio di regime.
Dico questo per due motivi: in primis non ci sono abbastanza persone in piazza; nel 2009 c’erano milioni di persone e la protesta fallì comunque, oggi si parla di qualche migliaio di manifestanti. In più bisogna dire che gli iraniani sono perfettamente consapevoli di cosa accadrebbe al paese se queste proteste si traducessero in una vera e propria rivoluzione.
Basta guardare alla situazione di altri stati arabi e osservare come sono andate a finire le primavere arabe: l’esempio principe è la Siria, in cui il tutto si è tradotto in una guerra civile che ha portato a migliaia di morti.
Gli iraniani ricordano quello che è successo nel ’79, quando ci fu un’enorme rivolta contro lo Shah, una delle più sanguinose che accadde nel paese. Gli iraniani che scendono in piazza non voglio questo.
Cosa pensa del ruolo degli Stati Uniti?
Ci sono due Stati Uniti: quelli dell’amministrazione Obama e quelli dell’amministrazione Trump. Obama ha portato all’Iran l’accordo sul nucleare che ha fatto saltare il regime di sanzioni contro l’Iran e che di fatto migliorava le condizioni economiche del paese. Oggi l’amministrazione Trump con le nuove sanzioni all’Iran ha fatto peggiorare nuovamente la situazione.
È per questo motivo che gli Stati Uniti non possono avere un ruolo in questa vicenda, essendo i primi fautori delle sanzioni, e quindi tra le cause che hanno portato le persone a scendere in piazza.
Gli Stati Uniti possono parlare di rispettare i diritti, chiedere a Theran di non agire contro i manifestanti, ma in realtà gli iraniani considerano questa difesa dei diritti come delle lacrime di coccodrillo statunitensi. Agli Stati Uniti di Trump non interessa della situazione economica dell’Iran, i manifestanti non vogliono il loro appoggio.
Le opzioni degli Stati Uniti sono poche: non hanno nessuno da appoggiare sul campo, non possono fornire armi come in Siria, altrimenti il paese cadrebbe in guerra civile, né c’è la volontà dei manifestanti di essere aiutati.
Al di là delle dichiarazioni di Trump su Twitter, non c’è alcun ruolo degli Stati Uniti.
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