A Donald Trump, piace battere il pugno sul tavolo. Lo fa spesso metaforicamente, con i suoi tweet. Ma talora lo fa sul serio: militarmente, quando picchia una gragnola di missili sulla Siria, o simula un attacco sulla Corea del Nord; e diplomaticamente, quando – storia di ieri – decide, quasi di punto in bianco, di abbandonare l’Unesco, l’Agenzia dell’Onu per la cultura. Una mossa brusca, anche se la vicenda dei rapporti tra l’organizzazione che ha sede a Parigi, in un Palazzo che porta la firma, fra le altre, di Pier Luigi Nervi, e gli Stati Uniti è tutta fitta di incomprensioni e tensioni.
Quando i pugni sul tavolo di Trump s’intensificano, vuol dire che qualcosa non gira nel verso giusto e che il presidente vuole magari distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica da situazioni per lui scomode, come potrebbero essere il fallimento del tentativo di rimpiazzare la riforma sanitaria, l’Obamacare, di Barack Obama con un altro sistema – reiterata promessa della sua campagna -; o gli ostacoli che incontra nel rimettere in discussione l’accordo sul nucleare con l’Iran, rapidamente declassato da “intesa imbarazzante per gli Stati Uniti” a “peggiore accordo mai negoziato”, ma sempre lì, perché il progetto di denunciarlo piace a qualcuno, ma rischia di costare caro a molti.
Che siano tweet o pugni sul tavolo, le stelle polari che indicano il percorso al magnate presidente sono sempre le stesse: compiacere in Medio Oriente Arabia Saudita e Israele, in funzione anti-Isis, ma soprattutto anti-Iran; e smantellare, ovunque sia possibile, dall’ambiente ai diritti civili, dal clima alla sanità, fino ai vari fronti della politica estera, l’eredità di Obama. L’abbandono dell’Unesco, fatto in tandem con Israele, è perfettamente consequenziale alle logiche di Trump, più da legge del taglione che da diritto internazionale.
A fare a meno degli Stati Uniti, del resto, l’Unesco ci è abituata. Nel 1984, Ronald Reagan decise l’abbandono dell’organizzazione. Passarono vent’anni prima che, nel 2003, George W. Bush autorizzasse il rientro, nel clima ambiguo della consonanza anti-terrorismo post 11 settembre 2001, ma anche delle tensioni per l’invasione dell’Iraq. E nel 2011 fu Obama a sospendere i pagamenti degli Usa all’Unesco, dopo l’ammissione della Palestina come Stato.
Le avvisaglie di un picco di tensione tra l’Agenzia di Parigi e l’Amministrazione di Washington non mancavano: la decisione a luglio di attribuire la spianata delle Moschee, o Monte del Tempio, al solo retaggio palestinese, ignorandone la tradizione ebraica, aveva già ravvivato le irritazioni; e, ora, la scelta di indicare la Tomba dei Patriarchi di Hebron come sito palestinese “patrimonio dell’umanità” è divenuta – parole di Nikki Haley, ambasciatrice degli Usa all’Onu – “solo l’ultima d’una lunga trafila di azioni insensate”. Fra gli altri esempi citati, “il mantenere il dittatore siriano Bashar al Assad nel comitato per i diritti umani”.
Nel diario dell’Onu, incidenti di percorso del genere non sono purtroppo rari. Questa volta, Trump e il suo compagno di viaggio Benjamin Netanyahu hanno colto la palla al balzo per battere, appunto, un pugno sul tavolo. “Lo scopo dell’Unesco è buono, ma purtroppo la sua estrema politicizzazione è fonte d’imbarazzo cronico”: dette ieri, la parole della Haley, avrebbero potuto benissimo essere pronunciate dal suo predecessore ai tempi di Reagan, che era pure una donna, Jeane Kirkpatrick. E la Haley, infatti, la cita: “Come dicemmo nel 1984, i contribuenti americani non devono più pagare per politiche ostili ai nostri valori” – il contributo Usa è circa un quinto del bilancio -.
Pure il fatto che favoriti nella corsa alla direzione generale dell’Agenzia, per succedere alla bulgara Irina Bokova, siano la francese, Audrey Azoulay, e il qatariota, Hamad Bin Abdulaziz Al-Kawari, suona come un’anomalia per gli Stati Uniti: la Francia è culturalmente lontana dalle sensibilità americane per il Medio Oriente e il Qatar è l’emirato cui l’Arabia Saudita e i suoi vassalli hanno dichiarato, con il sostegno di Washington, una sorta di embargo diplomatico e commerciale, causa connivenze di per sé contraddittorie con l’integralismo sunnita e l’Iran sciita.
Negli anni cruciali della Guerra Fredda, l’Unesco era considerato, da parte dell’Occidente, un covo di comunisti: ai tempi di Reagan l’uscita degli Usa, poi seguiti dalla Gran Bretagna, fu proprio innescata da un piano per il Nuovo Ordine Internazionale dell’informazione, letto come un piano per minare la libertà di stampa. In tempi più recenti, i contrasti si sono concentrati sull’adesione della Palestina, entrata con 107 voti a favore e 52 astenuti nel 2011, che aveva già causato il blocco dei finanziamenti da parte di Usa e Israele.
La decisione degli Usa di ritirarsi dall’Unesco entrerà in vigore il 31 dicembre. Dopo di che, Washington resterà osservatore permanente per “contribuire a fornire visioni, prospettive e competenze americane su alcune delle importanti questioni affrontate dall’Organizzazione”: senza diritto di voto, ma senza rinunciare a fare sentire la propria voce.
Attiva dal 1946, l’Unesco, che ha sede a Parigi, è stata una delle prime Agenzie specializzate create dalle Nazioni Unite: ha lo scopo di promuovere la pace e la comprensione tra i Paesi tramite l’istruzione, la scienza, la cultura, la comunicazione e l’informazione, nel segno “del rispetto universale per la giustizia, per lo stato di diritto, per i diritti umani e le libertà fondamentali”.
Nonostante qualche andirivieni nel tempo, l’Unesco conta oggi 195 Stati membri – saranno 193, dopo l’uscita di Usa e Israele – e 10 associati e gestisce programmi su quasi tutto il Pianeta. Una delle sue attività più conosciute e popolari è il mantenimento della lista dei patrimoni dell’umanità, siti importanti dal punto di vista storico, culturale o naturale, la cui conservazione e sicurezza è giudicata importante dalla comunità mondiale. L’Italia è il Paese che ne conta di più, 53, davanti alla Cina.
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*Giampiero Gramaglia è giornalista e consigliere IAI. Il suo account Twitter è @ggramaglia
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