Su quanto sta accadendo in Venezuela c’è moltissima confusione. La situazione è complessa [qui le ultime notizie] e, come spesso accade, c’è chi se ne approfitta per tirare acqua al proprio mulino strumentalizzando la questione venezuelana a fini ideologici e/o politici, ma anche chi semplicemente parla senza essere a conoscenza dei fatti pregressi.
Da anni il paese vive al limite, in una situazione difficile che col passare del tempo non ha fatto che aggravarsi e con essa anche la disinformazione. Finora nell’agenda dei media italiani, le notizie sul Venezuela erano relegate in una posizione secondaria (ad essere generosi) e le notizie sporadicamente divulgate son state in troppe occasioni discordanti, frammentarie e superficiali.
Gli ultimi avvenimenti hanno portato il Venezuela agli onori della cronaca e gli esperti – alcuni dell’ultimo minuto – accorrono per raccontare cosa è accaduto e sta accadendo nel paese. Cerchiamo quindi di fare chiarezza, smentendo le inesattezze e confermando le notizie corrette. Abbiamo selezionato sei affermazioni più utilizzate, dettagliando ognuna di esse con una spiegazione.
“In Venezuela è in corso un colpo di Stato” – FALSO
A manifestare dissenso nei confronti del governo è la maggior parte della popolazione, tra cui l’opposizione, come testimoniano anche le immagini e i video diffusi in rete. Le proteste non sono mai mancate in questi anni, così come i morti: subito dopo l’elezione di Maduro, il 7 febbraio 2013, molti studenti occuparono le strade di San Cristobal e durante la protesta venne ucciso Daniel Tinoco. Il 12 febbraio seguì un’altra manifestazione in cui le vittime accertate diventarono quattro.
Era solo l’inizio di un escalation di violenze. Nel corso degli anni i numeri delle vittime – e degli arresti – durante e dopo le manifestazioni continuarono a salire, gli accertati sono 200, come se non fossero già sufficienti le morti violente (una media di 48 al giorno), la carenza di beni essenziali e i sequestri armati di cittadini, da anni all’ordine del giorno: raccontavamo come si viveva in Venezuela già qualche anno fa.
Il culmine del malcontento venne dimostrato nell’aprile del 2017, quando il popolo venezuelano riempì come un fiume in piena le strade delle grandi città, in una marcia di proporzioni imponenti, chiedendo ancora una volta libertà, democrazia e rispetto dei diritti umani.
Di recente, tra il 21 e il 26 gennaio 850 persone sono state arrestate: 77 di loro sono minori. Circa 700 arresti sono avvenuti nella sola giornata del 23 gennaio, giornata in cui Guaidó è divenuto presidente ad interim. Non si tratta dunque di un colpo di Stato interno o esterno, ma della espressione di volontà di un intero popolo, finalmente unito.
Nicolas Maduro vinse le elezioni presidenziali nel 2013 (50.66 per cento vs 49,07), elezioni in cui vennero trovati nomi di cittadini defunti tra i votanti: le schede vennero riconteggiate su richiesta dello sfidante Capriles, ma senza una verifica delle identità. In ogni caso, la scadenza prevista per il suo mandato era, secondo la costituzione (articolo 230), il 9 gennaio 2019.
Durante le elezioni del dicembre 2015, furono eletti 112 deputati di opposizione (a fronte di 167) all’Assemblea Nazionale. Questo risultato non venne mai rispettato: i provvedimenti furono da subito boicottati, molti parlamentari incarcerati e, nonostante le numerose proteste di piazza della cittadinanza, Maduro convocò un’Assemblea Nazionale Costituente (Anc), che avrebbe dovuto redigere un nuovo testo costituzionale.
Quest’ultima creata senza partecipazione di alcuna forza politica come invece previsto dalla Costituzione, ha finito per usurpare le funzioni dell’Assemblea eletta, legiferando e nominando funzionari come il Ministero pubblico e il Difensore del popolo, di competenza esclusiva del “Parlamento”.
L’Anc, che non è stata riconosciuta dal popolo e neppure dagli organismi internazionali, ha promosso delle elezioni presidenziali che si sono poi svolte nel maggio 2018, senza la piena libertà dei partiti politici e non riconosciute né dalla popolazione, né dalla comunità internazionale.
A fronte di queste elezioni, Maduro ha preteso di essere ancora presidente per il periodo 2019-2024. Pertanto, l’insediamento svolto il 10 gennaio scorso, risulta essere nullo. L
a politica di Maduro, delfino di Chavez, ha seguito la scia populista del suo predecessore, che tuttavia a differenza sua godeva – almeno inizialmente – di un ampio consenso popolare e di una disponibilità finanziaria molto maggiore, con il petrolio ad 80 dollari al barile.
Se con dittatura si intende “la situazione data dall’accentramento, in via straordinaria e temporanea, di tutti i poteri in un solo organo, monocratico o collegiale, che li esercita senza alcun controllo”, ripercorrendo le fasi e i fatti politici avvenuti dal 2013 ad oggi citati qui in modo molto sintetico, si può tranquillamente affermare che si tratta di una dittatura.
I media hanno impropriamente parlato di “autoproclamazione” di Juan Guaidó, una definizione scelta forse per praticità, ma non propriamente corretta. Juan Guaidó (35 anni, laureato in ingegneria), dal 2015 è stato eletto parlamentare per l’Assemblea Nazionale venezuelana con il partito oppositore “Voluntad Popular”. Nel dicembre 2018 è diventato presidente del Parlamento.
Lo scorso 23 gennaio diviene presidente ad interim, come previsto dalla Costituzione, in particolare dall’articolo 233. L’articolo insomma parla chiaro: tra le opzioni di “mancanza di un presidente”, vi è anche la revoca popolare, ma se vogliamo anche “l’abbandono di ufficio”, considerata la fine del mandato e l’assenza di nuove elezioni. Subito dopo si può leggere che, nei casi elencati, si procederà a elezioni e che nel frattempo “il presidente dell’Assemblea Nazionale sarà responsabile della Presidenza della Repubblica”.
Dunque si può evincere che quella di Guaidó non sia una autoproclamazione, come riportato da molti media, ma una procedura giuridicamente legittima. Sebbene sia abbastanza chiaro il testo costituzionale, il fatto trova conferma anche da parte di numerosi giuristi, tra questi anche l’avvocato e professore universitario Luis Alberto Petit Guerra, stesore di un documento che spiega e conferma la valenza giuridica di questa decisione.
La situazione vissuta dai venezuelani è davvero terribile: un pollo, quando lo trovi, costa l’equivalente di un mese di stipendio base di un operaio, quasi nessuno riesce a comprarsi da mangiare ogni giorno. La gente ha talmente fame da mangiarsi persino gli animali dello zoo e da vendere i propri bambini per un casco di banane (sì, entrambe le cose sono successe veramente).
Qui raccontavamo la situazione già drammatica qualche anno fa. L’inflazione venezuelana è alle stelle da troppo tempo oramai e nel 2018 si è aggiudicata un + 1,700,000 per cento.
Come se non bastasse, il paese è in mano a ogni genere di banda criminale: le più potenti sono quelle legate al narcotraffico, che grazie ad accordi stretti con alcuni funzionari del governo Maduro, possono fare quello che vogliono e quando finiscono in carcere è come finissero in una villeggiatura fatta di prostitute, armi e droga.
Ricordiamo inoltre che nel 2016 due nipoti della coppia presidenziale sono stati arrestati dalla Dea (l’Agenzia antidroga degli Stati Uniti), che li monitorava da anni, perché trasportavano sul loro aereo privato 800 chili di cocaina delle Farc.
Quello venezuelano è divenuto un vero e proprio esodo: l’Onu ritiene che al 2017 circa 1,6 milioni di venezuelani vivano fuori dal proprio paese, un luogo in cui l’unica cosa che cresce è l’iperinflazione, in cui mancano le medicine, come anche il cibo e si vive come se si fosse in guerra, ma in guerra non si è. Sembra si tratti della più grande emigrazione forzata della storia dell’America Latina.
Dove sono andati i venezuelani? I più benestanti si sono recati negli Stati Uniti (la maggior parte nella vicina Miami), altri in Europa, in cui molti hanno amici e parenti. Mentre i più poveri hanno provato a lasciare il paese a piedi, dirigendosi verso la Colombia, Ecuador e Perù. In un contesto così, voi che fareste?
Molti stanno urlando alla vicinanza economica, ma è realmente questo il motivo? Partiamo dalla Cina. Nel 2011 Chavez, trovandosi in difficoltà e non volendo scendere a patti con il Fondo Monetario Internazionale per non dare al popolo l’impressione di una perdita della sovranità del Paese tanto difesa dal suo governo, scelse un altro attore con cui accordarsi: Pechino.
Nel Piano di sviluppo è riassunta una vera e propria sottomissione del Venezuela alla Cina. I cinesi non considerano il presidente venezuelano come una “persona non seria”, ma gli affari sono affari: nel 2011 Caracas ha raddoppiato le esportazioni di petrolio in Cina, passando dai 400mila barili al giorno – a prezzo irrisorio – a un milione nel giro di un anno.
Sempre nello stesso periodo Pechino si è impegnato a prestare al partner la considerevole somma di 32 miliardi di dollari. Soldi che il governo venezuelano ha dissipato nella corsa alla corruzione e debiti non saldati.
Con Maduro la situazione non è certo migliorata: il prezzo del petrolio è ai minimi storici e Maduro mette nelle mani della Cina il 9.9 per cento della compagnia petrolifera Sinovensa, posseduta già al 40 per cento dalla China National Petroleum. Potrà inoltre usufruire di un ricco giacimento situato nei pressi di Ayacucho,finanziando con 184 milioni di dollari la joint venture Petrozumano. In sostanza la Cina potrebbe vedere questa comoda situazione sfumare: se ritenessero Maduro illegittimo, vi sarebbero allora anche dubbi sugli accordi bilaterali che portano la sua firma.
Anche Cuba rientra in questo gioco. La produzione produttiva di L’Avana comprende una produzione – pure scarsa – di quattro prodotti: zucchero, tabacco, nichel e farmaci. La sua economia è fortemente dipendente dal Venezuela, la quale rifornisce L’Avana principalmente di sussidi e dal petrolio: al 2017 il Venezuela forniva all’alleata circa 7 milioni di dollari in sussidi e circa il 61 per cento del consumo di petrolio, fornendo quindi circa 19,3 milioni di dollari in barili di petrolio.
Insomma, il 21 per cento del Pil cubano dipende da Caracas. Lo stesso vale per la Bolivia. Il Messico invece, dopo essere stato accostato dalla Casa Bianca ai paesi che sostengono Maduro, ha dichiarato di non essere contro “gli Stati Uniti a proposito della posizione da assumere sul Venezuela” e ha assicurato: “Non stiamo fiancheggiando Maduro. Non stiamo fiancheggiando Guaidò. Pensiamo che si possa trovare una terza via per una soluzione pacifica”.
In ogni caso i sostegni a Maduro, come sempre avviene nella politica internazionale, non sono legati all’ideologia – e allora le socialiste Spagna Albania e la progressista Canada? – ma legati ad interessi economici: gli affari prima di tutto.