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    Cosa rivelano sull’America le proteste alla Columbia University contro la guerra nella Striscia di Gaza

    Credit: AGF

    L’offensiva di Israele dopo il 7 ottobre è sempre più impopolare negli Usa, specie tra i giovani e gli elettori democratici. Ma finora l’espressione più evidente di dissenso è arrivata dagli studenti. Ecco perché e come può riflettersi sulle presidenziali di novembre

    Di Giulio Alibrandi
    Pubblicato il 12 Lug. 2024 alle 15:11

    Più di 2.000 studenti arrestati e una rielezione sempre più in bilico. È il bilancio delle proteste che hanno travolto gli atenei degli Stati Uniti, dove gli studenti sono emersi come gli oppositori più tenaci della devastante offensiva israeliana sulla Striscia di Gaza.

    «L’ordine deve prevalere». Questo il messaggio di Joe Biden dopo l’intervento delle forze dell’ordine in decine di campus in tutto il Paese. Il leader democratico, che a novembre affronterà il suo predecessore Donald Trump, ha assicurato che la libertà di espressione «deve essere rispettata». Ma questo vale solo per le «proteste pacifiche» mentre le azioni degli ultimi mesi sono state «violente» e in quanto tali non protette dalla legge. «Il dissenso è essenziale per la democrazia, ma il dissenso non deve mai portare al disordine o alla negazione dei diritti di altri studenti che devono terminare il semestre e la loro istruzione», ha proseguito Biden, che ha parlato a poche ore dall’arresto di centinaia di studenti. «Esiste il diritto di protestare ma non il diritto di provocare il caos», ha sottolineato.

    Le immagini dell’intervento di uomini armati sui campus universitari e degli arresti di studenti e professori hanno scosso parte dell’opinione pubblica, ampliando ancora di più la frattura che si è aperta tra il candidato democratico e una parte chiave del proprio elettorato.

    Una posizione difficile per Biden che deve da una parte assicurare il sostegno a un alleato chiave degli Stati Uniti e dall’altra guardare alla corsa contro Donald Trump, in cui è considerato leggermente sfavorito.

    Il fattore “guerra”
    Finora il tentativo di sfumare il ruolo statunitense nel conflitto e di distanziare, almeno dal punto di vista comunicativo, le posizioni di Washington da quelle del governo israeliano non è stato recepito dai più giovani. È lontano il 2020, quando l’ex vicepresidente ha negato un secondo mandato a Donald Trump grazie anche a un vantaggio schiacciante nelle fasce d’età più giovani. Secondo gli ultimi sondaggi, il margine tra i giovani si è assottigliato notevolmente e, secondo alcune rilevazioni, sarebbe addirittura Trump a prevalere. A pesare sulle chance del candidato democratico, oltre ai giudizi sulla gestione dell’economia e dell’immigrazione, c’è anche il sostegno a Israele nella campagna militare su Gaza.

    Colpa di social come TikTok, secondo politici della caratura di Mitt Romney. Di recente l’ex candidato repubblicano alla presidenza ha legato piuttosto esplicitamente il tentativo di mettere al bando il social media della cinese Byte Dance con la presa che le immagini rilanciate da Gaza hanno sui Millennial e sulla Generazione Z. Davanti al segretario di Stato Antony Blinken, Romney ha chiesto al capo della diplomazia statunitense perché, dal 7 ottobre, «le pubbliche relazioni sono andate così male». La risposta: «C’è un ecosistema di social media, un ambiente in cui il contesto, la storia, i fatti si perdono e dominano l’emozione, l’impatto delle immagini». Romney si è detto d’accordo aggiungendo che questo è il motivo per cui «c’era un sostegno così netto affinché arrivassimo potenzialmente a chiudere TikTok».

    L’indignazione per i bombardamenti di Gaza non si limita solo ai più giovani. Secondo un sondaggio Gallup, la percentuale di statunitensi che sostengono Israele è crollata dal 50 per cento di novembre al 36 per cento di marzo. Tra i democratici il sostegno all’azione militare israeliana è pari solo al 18 per cento. Nonostante l’impopolarità della guerra sia piuttosto diffusa, finora l’espressione più evidente di dissenso è arrivata dal movimento degli studenti.

    Il focolaio della Grande Mela
    L’epicentro è stata la Columbia University, già protagonista di altre proteste studentesche del passato. Dopo il movimento per i diritti civili, la guerra in Vietnam, l’apartheid in Sudafrica, questa volta a mobilitare gli studenti è stata l’operazione militare lanciata in risposta agli attacchi del 7 ottobre. Da allora oltre 38mila palestinesi sono stati uccisi nella Striscia, per la maggior parte donne e minori. A seguito degli attacchi sferrati da Hamas avevano invece perso la vita 1.139 israeliani, mentre circa 240 persone sono state prese in ostaggio da Hamas e altri gruppi palestinesi.

    Come già avevano fatto i movimenti del passato, anche questa volta gli studenti di Columbia hanno occupato Hamilton Hall, sede di uno dei quattro college dell’università, chiedendo all’università di rinunciare agli investimenti in Israele e nelle aziende che sostengono la guerra, la «trasparenza finanziaria» e «l’amnistia» per i manifestanti.

    L’occupazione del 30 aprile è stata il culmine di un’escalation iniziata due settimane prima sempre a Columbia, per poi riverberarsi in decine di università nel resto degli Stati Uniti. La situazione è precipitata il 17 aprile, quando la presidente dell’università newyorkese, l’economista Minouche Shafik, è stata chiamata a testimoniare di fronte al Congresso dopo le critiche dei repubblicani per non aver contenuto le proteste che da mesi gli studenti inscenavano contro l’intervento militare nella Striscia di Gaza.

    L’audizione di Shafik è stata in parte una replica di quanto visto a dicembre, quando le presidenti dell’University of Pennsylvania e di Harvard erano state convocate dalla commissione della Camera sull’istruzione e si erano poi successivamente dimesse.

    A differenza delle sue colleghe, che avevano posto l’accento sulla difesa del diritto di espressione, Shafik ha in parte condiviso la preoccupazione dei deputati repubblicani sul dilagare dell’antisemitismo sui campus universitari. L’intenzione sembrava essere quella di evitare le critiche che hanno finito per travolgere Elizabeth Magill e Claudine Gay, le presidenti dell’università della Pennsylvania e Harvard.

    Che il clima sarebbe stato teso era chiaro già alla vigilia. In un articolo pubblicato sul Wall Street Journal, Shafik aveva tenuto a sottolineare che la libera espressione deve collocarsi «entro parametri specifici». Un gruppo di 23 docenti ebrei della Columbia aveva invece criticato le premesse stesse dell’audizione, parlando di «nuovo maccartismo». «Ci opponiamo all’utilizzo dell’antisemitismo come arma», hanno scritto i professori, dicendosi «seriamente preoccupati» sulla base delle precedenti udienze della commissione «per le false narrazioni che sottendono questi procedimenti e mirano a far sì che i testimoni si compromettano». «La Columbia dovrebbe essere orgogliosa di aver partecipato a un movimento su scala nazionale che ha contribuito a garantire i diritti civili e riproduttivi e a porre fine alla guerra del Vietnam e all’apartheid in Sudafrica», hanno aggiunto, ricordando che «la tradizione delle proteste studentesche ha svolto un ruolo fondamentale nella democrazia americana».

    All’audizione Shafik ha prima dichiarato che l’antisemitismo «non ha alcun posto nel nostro campus», poi, alla deputata democratica Ilhan Omar, ha affermato di non essere a conoscenza di alcuna manifestazione contro gli ebrei all’università. Messa alle strette dai repubblicani si è infine detta d’accordo nel definire alcuni degli slogan dei manifestanti «antisemiti».

    Il tentativo di evitare la sorte di Magill e Gay si è rivelato un boomerang per l’ex dirigente della Banca mondiale. Lo stesso 17 aprile gli studenti si sono accampati sul prato del campus principale di Morningside Heights. Il giorno successivo la polizia è intervenuta per sgomberare le tende allestite sulla “West Lawn”, arrestando più di 100 manifestanti. Tra i fermati c’era anche la figlia della deputata democratica Ilhan Omar, che il giorno precedente aveva interrogato Shafik. A chiedere l’intervento della polizia, ha specificato il sindaco di New York, Eric Adams, è stata direttamente l’amministrazione della Columbia.

    Un’epidemia nazionale
    Gli arresti non hanno fatto altro che infiammare le proteste, che si sono presto allargate a decine di altre università. Nei giorni successivi sono sorti accampamenti anche presso le università di Michigan, Carolina del Nord e il Massachusetts Institute of Technology. «Piccole Gaza», li ha poi definiti il senatore repubblicano Tom Cotton, noto per aver chiesto l’intervento dell’esercito per sedare le proteste di Black Lives Matter.

    «L’ironia è che, nel tentativo di calmare la situazione e di affermare la propria autorità, l’amministrazione ha scatenato questa tempesta di fuoco», ha detto all’Economist David Pozen, professore di diritto a Columbia. Secondo il settimanale britannico, gli sforzi per fermare le proteste «si sono ritorti contro» l’ateneo.

    Giorno dopo giorno, sui media tradizionali e sui social sono comparse immagini di studenti e professori picchiati, buttati a terra o immobilizzati con i taser. Una situazione che ha creato sempre più imbarazzo per le amministrazioni universitarie, accusate da una parte di aver lasciato che sui campus dilagasse l’illegalità e dall’altra di aver ceduto a pressioni politiche sacrificando i propri studenti. Alla University of Southern California, l’amministrazione è arrivata ad annullare il discorso della “valedictorian”, la studentessa prima della classe Asna Tabassum, di fede musulmana. L’ateneo è stato poi costretto a disdire anche il discorso dell’ospite principale della cerimonia, il regista Jon M. Chu.

    Lunedì 22 aprile la Columbia ha annullato le lezioni in presenza, mentre centinaia di manifestanti hanno iniziato ad affollare la tendopoli alla New York University. Anche qui l’amministrazione dell’università ha chiamato la polizia, che ha arrestato decine di manifestanti. Lo stesso è accaduto all’università di Yale. È intervenuto anche Joe Biden, che ha condannato sia le «proteste antisemite», che «chi non comprende cosa sta accadendo ai palestinesi».

    Il 24 aprile Columbia ha fissato un nuovo ultimatum per sgomberare il prato, ma molti si sono rifiutati di interrompere la protesta finché l’università non avesse accettato di recidere ogni legame con Israele o con aziende che sostengono la guerra in corso. Nelle stesse ore si sono registrati scontri alla University of Texas dove centinaia di agenti, alcuni dei quali a cavallo, hanno caricato i manifestanti, arrestando più di 30 persone. il 29 aprile la Columbia ha iniziato a sospendere gli studenti rimasti nell’accampamento, che al momento dell’ultimatum contava ancora più di 100 tende. Invece di lasciare il prato, centinaia di manifestanti hanno continuato a sfilare. In tutto il Paese il totale degli arresti nei campus universitari ha superato quota mille persone.

    Il 30 aprile è stato il giorno dell’occupazione di Hamilton Hall: decine di manifestanti hanno sfidato l’amministrazione, che aveva minacciato gli studenti con l’espulsione. Hanno sbarrato gli accessi e appeso a una finestra lo striscione «Palestina libera», insistendo che sarebbero rimasti nell’edificio finché l’università non avesse accolto le loro tre richieste.

    «Prendere il controllo di un edificio è un rischio piccolo rispetto a quello che si assume chi resiste ogni giorno a Gaza», ha detto una portavoce degli studenti, citando l’offensiva annunciata a Rafah, che la stessa Casa bianca non è poi riuscita a scongiurare. L’edificio, occupato dagli studenti anche durante le proteste degli scorsi decenni era stato ribattezzato “Malcolm X Liberation College” nel 1968 e “Mandela Hall” nel 1985, quando gli studenti contestavano il regime sudafricano dell’apartheid. Questa volta è stato chiamato “Hind’s Hall” in ricordo di Hind Rajab, la bambina di sei anni uccisa dalle forze israeliane a gennaio scorso. La bimba era inizialmente sopravvissuta all’attacco di un carro armato contro l’auto in cui viaggiava con il resto della famiglia. L’ambulanza che si stava recando sul posto per soccorrerla era stata però attaccata anch’essa dalle forze israeliane nonostante, secondo quanto riportato dal Washington Post, i resti del mezzo siano stati trovati lungo uno dei tragitti indicati come sicuri dalle autorità israeliane.

    L’occupazione dell’edificio è durata poche ore: lo stesso giorno gli agenti in tenuta antisommossa hanno fatto irruzione, sgombrando anche l’accampamento nella West Lawn. Un altro intervento su richiesta dell’amministrazione universitaria, ha dichiarato la polizia.

    Secondo diversi osservatori l’università avrebbe potuto fare altre scelte. Poche ore prima che l’amministrazione della Columbia chiamasse nuovamente la polizia, l’Università Brown ha acconsentito di mettere ai voti, per il prossimo ottobre, una proposta per disinvestire i fondi dell’università da aziende legate a Israele. Un gesto distensivo che ha evitato l’escalation vista in altri atenei, nonostante la stessa amministrazione avesse deciso nei mesi precedenti di arrestare decine di studenti. In risposta al cambio di atteggiamento, ha sottolineato il portale Slate, gli studenti hanno acconsentito a sgomberare l’accampamento il giorno stesso. Quella di arrivare allo scontro è stata quindi, secondo i critici di Shafik, una scelta che poteva essere evitata. È la lezione che sembrano aver tratto anche in altre città. «Non dobbiamo fare cose stupide come a Columbia», ha detto nei giorni successivi il procuratore distrettuale di Philadelphia Larry Krasner.

    Hanno destato scalpore anche gli scontri avvenuti nella notte tra il 29 e il 30 aprile alla University of California – Los Angeles (Ucla), dove alcuni gruppi filo-israeliani si sono diretti verso l’accampamento degli studenti. Secondo la ricostruzione del New York Times, le forze dell’ordine non sono intervenute per diverse ore, mentre i dimostranti venivano attaccati usando bastoni, spray chimici e anche fuochi d’artificio. La notte successiva la polizia ha arrestato circa 200 persone che erano presenti nell’accampamento.

    Pressione e repressione
    Nella conferenza stampa indetta dopo le retate che hanno portato a più di 2.000 gli studenti arrestati nell’arco di due settimane, Biden ha sottolineato che nei campus universitari non c’è posto né per «l’antisemitismo o le minacce di violenza contro gli studenti ebrei» né «per l’incitamento all’odio o alla violenza di alcun tipo, che si tratti di antisemitismo, islamofobia o discriminazione contro gli arabi americani o i palestinesi americani». Non ha fatto riferimento ai metodi usati nei campus dagli agenti, che hanno preoccupato attivisti e studenti. «Nessuna di queste persone si è presentata quando i suprematisti bianchi con le torce che urlavano “gli ebrei non ci sostituiranno” marciavano sul campus mentre nascondevo i miei tre figli», ha scritto su X Chad Wellmon, professore della University of Virginia, commentando una foto che mostra un folto gruppo di agenti in tenuta antisommossa prima dello sgombero delle tende nel campus di Charlottesville il 4 maggio. Lo stesso che era stato attraversato dalla famigerata marcia del 2017, a seguito della quale fu uccisa una delle partecipanti a una contro-manifestazione, Heather Heyer.

    Secondo Howard French, editorialista di Foreign Policy e professore della scuola di giornalismo della Columbia, le proteste non hanno tanto messo a nudo problemi nell’ambiente universitario quanto il momento di crisi in cui versa la politica statunitense e soprattutto la politica estera di Washington, in particolare per quanto riguarda il suo rapporto stretto con Israele. La domanda che pone French, a lungo corrispondente dall’estero per il New York Times, è quale possa essere considerata una reazione adeguata dei cittadini di fronte agli orrori che arrivano quotidianamente da Gaza.

    Washington, oltre a fornire armi per l’offensiva israeliana quasi senza vincoli, è rimasta sostanzialmente impassibile di fronte a quello che è accaduto nella Striscia. In questo contesto, molti politici hanno finito per considerare gli studenti come «una minaccia». «Questo è esattamente il contrario di quello che sta avvenendo. Nel protestare pacificamente, gli studenti della Columbia e di un numero crescente di altri campus stanno fornendo alla società americana e al mondo una lezione di democrazia e cittadinanza», ha sottolineato. «Di fronte alle atrocità, dicono basta, e quasi sempre lo fanno in modo pacifico». Una lezione, secondo French, anche a chi ritiene irrealistiche le richieste di fermare gli investimenti finché non ci sarà la pace. Invece di rassegnarsi, gli studenti si stanno muovendo nella realtà a loro più vicina, facendo pressione sulle istituzioni a cui fanno riferimento.

    «Ciò che ho visto all’interno dei cancelli dell’università è stato generalmente un quadro di civiltà esemplare», ha evidenziato, sostenendo che i manifestanti «sono stati erroneamente definiti come fomentatori di odio contro gli ebrei da parte dei critici, compresi importanti politici statunitensi». Pur condannando gli attacchi e le offese contro studenti ebrei ha detto che rispetto alla sua «esperienza limitata» nel campus della Columbia «tali eventi non sono particolarmente comuni».

    Con l’obiettivo di contrastare l’antisemitismo, la Camera dei Rappresentanti ha approvato una proposta di legge all’indomani dell’intervento delle forze dell’ordine alla Columbia. Il testo, approvato con parziale sostegno bipartisan dalla Camera a maggioranza repubblicana, amplierebbe la definizione legale di antisemitismo per includere gli attacchi «allo Stato di Israele, concepito come collettività ebraica». Non è chiaro quale sarà la sorte del provvedimento, che deve ancora superare l’esame del Senato. Secondo la American Civil Liberties Union (Aclu) finirebbe per avere un effetto «dissuasivo» sulla libertà di espressione degli studenti nei campus universitari «equiparando erroneamente le critiche al governo israeliano all’antisemitismo». Anche la lobby centrista pro-israeliana J Street è stata critica, definendola una proposta «poco seria», volta a dividere i democratici. 

    Il leader repubblicano, il presidente della Camera Mike Johnson, intende continuare a esercitare pressione sulle università e ha annunciato l’apertura di un’inchiesta sui finanziamenti federali agli atenei. «Non permetteremo che l’antisemitismo circoli nei campus e faremo in modo che queste università rispondano della loro incapacità di proteggere gli studenti ebrei nei campus», ha affermato Johnson, che negli scorsi mesi aveva anche invocato l’intervento della Guardia nazionale. Una richiesta considerata da molti provocatoria, che ha fatto tornare la memoria a una delle pagine più buie della contestazione. Quella cioè del massacro dell’università Kent State, dove gli uomini della Guardia nazionale aprirono il fuoco e uccisero quattro studenti nel 1970. Oltre a Johnson, anche altri esponenti del campo filo-israeliano hanno chiesto di schierare la Guardia nazionale. Ma Biden ha risposto con un secco «no» all’ipotesi.

    Profumo di anni Sessanta
    I rimandi al passato non si limitano agli appelli all’uso della forza. Anche negli anni ’60, come oggi, le proteste avevano preso di mira le università che lavoravano con i produttori di armi, come il napalm. Fu il caso della Università del Wisconsin-Madison, dove nel 1967 gli studenti contestarono la presenza nel campus di reclutatori della Dow Chemical. La protesta, inizialmente pacifica, sfociò nella violenza quando gli agenti intervennero con i manganelli per rimuovere gli studenti che tentavano di impedire alla Dow di tenere colloqui. Quel 18 ottobre è ricordato come un giorno «epocale» da chi vi ha preso parte, come ricorda il progetto “A Turning Point” (Un punto di svolta) promosso dalla stessa università.

    Per decenni questa e altre manifestazioni sono state celebrate come momenti fondamentali nel movimento per i diritti civili dopo le riforme della Great Society di Lyndon Johnson. Tutt’oggi le stesse università che minacciano di espellere i propri studenti continuano a usare il proprio passato per promuoversi. Secondo quanto riportato dalla rivista The Atlantic, il giorno successivo al primo intervento della polizia alla Columbia, chiesto dalla stessa amministrazione, veniva inviata una mail in cui si informavano i nuovi studenti che «la protesta, l’attivismo politico e il profondo rispetto per la libertà di espressione sono da tempo parte dell’essenza del nostro campus». Un messaggio che suona quantomeno paradossale quando è la stessa università a chiamare la polizia per sgomberare gli studenti e a denunciare i metodi usati dai manifestanti. Ma che dimostra quanto è radicato il mito dei movimenti studenteschi. Un’altra mail inviata dalla Columbia il 20 aprile, nel pieno della protesta, ammetteva che la tradizione di attivismo di Columbia, «a volte può creare momenti di tensione» riconoscendo però «che il dialogo e il dibattito che si accompagnano questa tradizione hanno un ruolo centrali nella nostra esperienza educativa».

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