Con il voto del collegio elettorale degli Stati Uniti si è conclusa la prima sofferta fase di transizione tra il presidente uscente Donald Trump e Joe Biden, che ieri ha incassato ufficialmente il voto dei grandi elettori scelti con l’elezione popolare del 3 novembre. Eppure quello che doveva essere un proforma nel percorso verso l’insediamento alla Casa Bianca si è rivelato un nuovo terreno di scontro tra le regole di una costituzione democratica secolare e i capricci del Tycoon, il quale ha presentato fino all’ultimo momento ricorsi ai giudici federali mentre alle autorità elettorali di almeno due stati arrivavano minacce di morte.
La sede del collegio dell’Arizona, roccaforte repubblicana espugnata da Biden per un pugno di voti, è rimasta segreta durante le operazioni di voto proprio per proteggere gli elettori. In Michigan, uno dei bacini elettorali più contesi, il parlamento è stato chiuso per “credibili minacce di violenza” arrivate ai congressmen di entrambi i partiti. E il giorno prima Trump ha chiesto le dimissioni del ministro della giustizia William Barr perché ha negato l’esistenza di brogli di massa nell’Election day.
Dunque anche se i 306 voti elettorali riconosciuti ufficialmente a Biden contro i 232 di Trump e gli oltre 80 milioni di voti incassati con quasi 5 punti di differenza sull’avversario non lasciano dubbi sul fatto che il senatore del Delaware abbia vinto senza se e senza ma, è nel segno di queste tensioni che inizia la sua tanto agognata presidenza.
E il consenso popolare, la riconquista degli “Swing states” o la ricostruzione del “blue wall” non basterà a far cantar vittoria alla nuova coppia presidenziale, per due motivi: il primo è rappresentato dagli effetti che l’inesorabile e lacerante azione di delegittimazione della vittoria di Biden portata avanti da Trump e alleati lascerà negli elettori e nella tenuta stessa della democrazia, il secondo dalla risicata maggioranza di cui i dem godono in Congresso.
C’è un’America che non crede a Biden
A prescindere dall’esito fallimentare, il teatrino pseudo legale del Tycoon amplificato dalla sua comunicazione sui social ha contribuito ad alienare buona parte dell’elettorato repubblicano, convinto insieme a una fetta della classe dirigente che Biden non sia il legittimo vincitore di queste elezioni. Un attacco alla democrazia che lascia inevitabilmente il segno nella fiducia che il popolo americano ripone in essa.
Diversi sondaggi condotti a partire da metà novembre mostrano che la maggior parte dei repubblicani crede nel mito della “rigged election”, l’elezione truccata, con percentuali che vanno dal 52 all’80 per cento secondo quanto riportano Cnbc e il New York Times, che cita tra gli altri un sondaggio realizzato da Ipsos per Reuters. Lo dimostrano anche le manifestazioni pro Trump organizzate a Washington fino allo scorso sabato, e che potranno riproporsi nel corso dei prossimi mesi.
Lo dimostra anche il fatto che 106 congressmen tra deputati e senatori del Partito Repubblicano si siano uniti all’ultima causa che il Texas ha presentato alla Corte Suprema sostenendo che quattro stati (Georgia, Pennsylvania, Michigan e Wisconsin, in cui ha vinto Biden) avessero cambiato le loro norme elettorali in modo irregolare, con altri 17 stati che hanno sottoscritto le richieste del procuratore generale di Austin.
E con la fuoriuscita dell’infedele Barr, sposare o meno la causa della vittoria rubata potrebbe rivelarsi una prova di fedeltà per tutti i repubblicani che ambiscono a una carica elettiva nel partito che Trump ancora controllerà. Potrà Biden, con queste premesse, “curare e unire” gli Stati Uniti, come promesso ancora una volta nel discorso pronunciato a Wilmington dopo il voto dei grandi elettori? È questa la democrazia che “batte nel cuore degli americani” e che ha applaudito ieri sera? Potrà la sua amministrazione “voltare pagina”?
La partita della Georgia
L’ambizioso gabinetto nominato dall’ex vicepresidente dovrà fare i conti con una sfida tutta politica, che riguarda la possibilità di legiferare di cui godrà nei prossimi quattro anni. A prescindere dagli umori del popolo e degli oppositori, il neo presidente avrà bisogno dei numeri per far passare le leggi in Congresso. Alla Camera ci sono, ma abbastanza risicati: i dem occupano 222 seggi contro i 211 controllati dal Gop (che il 3 novembre ne hanno guadagnati 10).
In Senato la partita è ancora aperta, e si concluderà in Georgia, lo stato repubblicano conquistato quasi miracolosamente dall’ex vicepresidente dove il 5 gennaio si eleggeranno i due Senatori che faranno la differenza alla Camera alta, in cui ora i repubblicani hanno la provvisoria maggioranza di 50 seggi contro i 48 dei dem. A gennaio circa 3 milioni di cittadini sceglieranno chi siederà sulle due poltrone vacanti tra i democratici Jon Ossoff e Raphael Warnock e i due incumbent repubblicani Kelly Loeffer (subentrata al dimissionario Brian Kemp) e David Perdue, trumpiani di ferro ai quali il presidente uscente ha dedicato il suo primo comizio dall’Election Day.
A Biden serve che vincano entrambi i suoi candidati per garantirsi una soglia minima di governabilità: portandosi a 50 seggi, e quindi raggiungendo i repubblicani, potrà contare sulla vicepresidente Kamala Harris, che è anche la presidente del Senato e che ha facoltà di votare in caso di parità, per far passare leggi. Sempre considerando le resistenze interne al partito e la proclamata indipendenza di due degli attuali senatori, l’ex sfidante alle primarie Bernie Sanders e Angus King del Maine, questa è la prospettiva più rosea su cui il neo presidente può puntare.
Ma anche la meno probabile al momento: la Georgia che ha eletto Biden é sempre stata saldamente repubblicana, i due esponenti del Gop sono in vantaggio nei sondaggi e uno dei due seggi è vacante solo perché l’allora repubblicano che lo occupava si è dimesso.
Senza maggioranza in Senato la situazione per Biden si complica, perché i rossi potrebbero bloccare molte delle leggi con cui la nuova presidenza vorrebbe segnare un cambio di passo, da quelle che puntano a risanare il debito tassando le grandi aziende a una nuova riforma sanitaria fino al green New Deal. Per questo nell’ultima partita prima di insediarsi alla Casa Bianca Biden dovrà giocarsi tutto.
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