Usa-Iran | “Con l’uccisione di Soleimani Trump ha coalizzato sunniti e sciiti”
Non è semplice comprendere la crisi in Medio Oriente scatenata dall’uccisione dal generale Soleimani. Per capire chi fosse il Generale, i motivi dell’uccisione e le conseguenze, TPI ha intervistato Matteo Pugliese, ricercatore associato all’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) di Milano, esperto di sicurezza internazionale, antiterrorismo e geopolitica.
Soleimani era il comandante della forza d’elite Quds dei Guardiani della Rivoluzione iraniani, incaricata delle operazioni speciali all’estero. Uno degli uomini più potenti e temuti nel regime iraniano. Nella sua carriera ha ordinato feroci repressioni e attacchi alle truppe americane. Ha anche contribuito alla lotta contro i terroristi dell’Isis, jihadisti sunniti, ma senza un ruolo decisivo.
Ha coordinato le forze sciite in Siria ed Iraq, ma si è concentrato più che altro nel sostenere il regime di Assad contro i ribelli. Insomma, ha ordinato azioni contro jihadisti, ribelli sunniti e soldati americani. Azioni talvolta di guerriglia, talvolta terroristiche, che vanno inquadrate nell’ottica della guerra asimmetrica con milizie irregolari, dai libanesi di Hezbollah alle brigate Fatemiyoun e Zainebiyoun di sciiti afghani e pakistani, dalle Forze di Mobilitazione Popolare in Iraq agli Huthi in Yemen. Tutti legati a Teheran.
Gli Stati Uniti rimproverano all’Iran un disegno egemonico. Certamente una preoccupazione legittima per la minaccia ad Israele. Allo stesso tempo, questa critica perde un po’ di credibilità se avanzata da una superpotenza che schiera decine di migliaia di militari in più di 70 paesi e accusa altri di voler creare una sfera di influenza sugli stati vicini.
È indubbio che negli ultimi anni e mesi le milizie sciite sotto la direzione dell’Iran abbiano tentato di espandersi in Siria e Iraq, anche attaccando Israele e le forze Usa. Tuttavia, secondo il premier iracheno, Soleimani era arrivato a Baghdad per trattare con l’Arabia Saudita per diminuire le tensioni tra il fronte sciita e quello sunnita.
In realtà non ha fornito alcuna prova. Proprio per questo oltre alle principali potenze, che hanno invitato alla calma e alla de-escalation, anche Netanyahu si è subito smarcato e ha tenuto a precisare al suo governo che l’uccisione di Soleimani è una scelta solo americana, che Israele non è coinvolto e non deve farsi coinvolgere.
La crisi internazionale scatenata dall’uccisione del generale Soleimani è il simbolo dell’unilateralismo deleterio dell’amministrazione Trump. Un atteggiamento criticato non solo dal Congresso e dagli alleati europei, ma anche da importanti diplomatici bipartisan, perché ignora il multilateralismo e la condivisione delle decisioni.
Non sono d’accordo con questa tesi per due ragioni. Credo intanto che assisteremo a un’escalation ben più grave di violenza, perché con questa mossa Washington ha messo Teheran con le spalle al muro: non rispondere avrebbe significato ammettere una sconfitta, e questa è la ragione dell’attacco notturno. Ma ci sono gravi conseguenze anche dal punto di vista strategico, è un autogol per gli Stati Uniti.
Il successore di Soleimani, il generale Esmail Qaani, ha una fama altrettanto fanatica e spietata. In una sola mossa, Trump è riuscito a unire sciiti e sunniti d’Iraq nell’odio verso l’America, a far votare il parlamento di Baghdad per l’espulsione delle truppe straniere dal paese, ad affossare il già traballante accordo sul nucleare iraniano, a radicalizzare molti moderati nella società iraniana, non solo rendendo il controverso generale un martire, ma anche con l’inaudita minaccia di colpire siti culturali persiani, un crimine di guerra. Infine, l’espulsione dall’Iraq delle truppe occidentali anti-Isis lascerà campo libero agli jihadisti sunniti, che si stanno già riorganizzando.
Il leader di Hezbollah è stato chiaro: le rappresaglie non saranno dirette a civili americani nella regione, bensì solo alle forze armate americane, così come accaduto questa notte. Non è da escludere tuttavia l’iniziativa di singoli fanatici o gruppi autonomi sciiti che vogliono vendicare la morte di Soleimani e prendono di mira anche civili.
Sul fronte politico e sociale, occorre dire che la società iraniana non è compatta a sostegno del regime, ci sono moderati che lo appoggiano perché sentono il proprio paese aggredito, laici e democratici che vorrebbero la fine degli ayatollah, minoranze arabe, curde, azere che aspirano all’autonomia o all’indipendenza, ma anche nostalgici dello Shah di Persia. Non dimentichiamoci anche le importanti proteste sociali dei mesi scorsi in Libano e Iraq, che hanno portato in piazza soprattutto giovani che chiedono la fine del settarismo religioso e potrebbero essere il germoglio di identità nazionali sino ad ora fragilissime.