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    La resa: ecco cosa può succedere ora negli Stati Uniti dopo la rinuncia di Joe Biden

    Credit: AP Photo

    La rinuncia del presidente a un secondo mandato è un segnale di chiarezza. L’endorsement alla sua vice Kamala Harris invece potrebbe rivelarsi un gesto di debolezza. Se i democratici non l’avevano scelta, è perché avevano dei dubbi sulla sua candidatura. Ecco tutti gli scenari possibili

    Di Stefano Mentana
    Pubblicato il 26 Lug. 2024 alle 08:00

    Per giorni il mondo e gli Stati Uniti hanno guardato ai democratici americani e alla possibilità di un ritiro di Joe Biden dalla corsa alla Casa Bianca con due sentimenti distinti ma speculari. Da un lato qualcuno pensava che quello che si stava prospettando fosse qualcosa che non poteva succedere, non nella realtà, non fuori dalla trama di House of Cards o di qualche altra serie tv. Dall’altro, che tale possibilità non sembrava poter avere alternative. Una situazione che ben mostra il cul de sac in cui i democratici americani si sono trovati (o forse sarebbe più corretto dire: in cui si sono infilati) col rischio di una prospettiva “lose-lose”.

    Joe Biden, dopo tre anni e mezzo da presidente e un operato rivendicato come positivo dai principali esponenti del suo partito, dopo che nei primi mesi di quest’anno ha vinto in tutta serenità e senza avversari degni di nota le primarie dei democratici, in qualsiasi situazione sarebbe risultato tranquillamente il candidato dei democratici per le elezioni del prossimo novembre. E, regole alla mano, lo sarebbe stato.

    Tuttavia, i dubbi circa l’età avanzata (il presidente ha quasi 82 anni) che vanno avanti da tempo si sono fatti sempre più grandi dopo il faccia a faccia con Donald Trump, in cui le risposte di Biden sono risultate lente e confuse, alimentando tutte le perplessità su come potrebbe affrontare una campagna elettorale e un altro mandato di quattro anni, mentre emergevano con sempre maggiore frequenza retroscena su come il presidente stia limitando sempre di più i propri impegni. 

    Nei giorni successivi, editoriali e appelli si sono susseguiti per chiedere a Biden di farsi da parte, con un gesto senza precedenti e che avrebbe avuto un’eco mediatica che si sarebbe potuta abbattere in modo devastante sui democratici, perché sia mantenere in campo la candidatura di Biden che ritirarla sarebbero risultati segni di debolezza.

    Terreno inesplorato
    Alla fine, il 21 luglio la tanto attesa decisione è arrivata, con un passo indietro di Biden e un endorsement in favore della sua vice Kamala Harris che portano i democratici letteralmente in un terreno inesplorato. Non è infatti mai successo che un candidato presidente di uno dei due principali partiti americani abbia fatto un passo indietro dopo aver vinto le primarie e aver ottenuto la maggioranza dei delegati in vista della Convention. L’unico caso in parte paragonabile risale al 1972 quando Thomas Eagleton dovette fare un passo indietro da candidato vice dopo che si era diffusa la notizia di un suo precedente ricovero per problemi legati alla salute mentale e in molti manifestarono i timori di una ricaduta. McGovern, il candidato democratico dell’occasione, finì – anche a causa di altri problemi della sua campagna – per ottenere uno dei peggiori risultati di sempre per il suo partito.

    Il terreno totalmente inesplorato in cui si trovano adesso i democratici prevede che i delegati della Convention non siano più legati a Joe Biden, a cui sarebbero rimasti vincolati nonostante qualsiasi possibile mal di pancia, ma “unpledged”, come si definiscono quando non sono legati ad alcun candidato, e come tali possono avere piena libertà di scelta. Una mossa che lascia di fatto ai principali esponenti dem il compito di trovare un accordo più largo possibile intorno a Kamala Harris ed evitare possibili distinguo e gesti di dissenso per quella che potrebbe altrimenti risultare una candidatura debole, così come ampio dovrà essere il consenso intorno al vice quando verrà individuato. Senza una maggioranza larga e prestabilita il rischio sarebbe una Convention alla vecchia maniera, più simile a un congresso di partito che alla semplice certificazione del voto delle primarie.

    Una situazione in parte analoga si è verificata l’ultima volta nel 1968, quando l’omicidio di Bob Kennedy lasciò senza candidato i delegati che RFK aveva ottenuto durante le primarie. Tali delegati andarono a sostenere l’allora vicepresidente Hubert Humphrey, mettendo all’angolo Eugene McCarthy, candidato apertamente contrario alla guerra in Vietnam che aveva ottenuto ottimi risultati e dopo questo episodio andò in rotta col partito. Fu anche per questo che i democratici decisero di modificare le regole per dare maggior peso possibile al voto delle primarie.

    In precedenza, tuttavia, la scelta del candidato presidente era diversa: le primarie eleggevano principalmente i delegati più che il candidato vero e proprio, basandosi sul consenso di figure di spicco locali, dei capi corrente, dei “political bosses” e dei “favorite sons” che poi facevano pesare questo consenso in sede di Convention, dove si stabiliva il candidato. Una faccenda d’altri tempi che i democratici non potrebbero permettersi di replicare nel 2024 nella situazione in cui si trovano oggi, ragione per cui cercheranno di limitare al fisiologico le defezioni verso l’ipotesi Harris.

    Strada in salita
    Con i democratici che cercano a poco più di tre mesi dal voto a districarsi in questa complessa situazione e lanciare una campagna totalmente nuova in extremis, i repubblicani sono i favoriti, ancora di più dopo che Donald Trump è scampato il 13 luglio all’attentato durante il comizio di Butler. In questa situazione, lo speaker della Camera, Mike Johnson, ha chiesto a Biden di dimettersi da presidente perché, se non è in grado di ricandidarsi, a suo avviso, non è nemmeno in grado di guidare il Paese. Un gioco all’attacco che può contribuire a delegittimare Biden e portare i leader stranieri in un momento estremamente delicato per la politica mondiale a rivolgersi direttamente a Trump, ritenendolo il probabile presidente, per molte decisioni relative al futuro prossimo.

    Il cambio in corsa, infatti, anche da questo punto di vista rischia di rappresentare un segnale di debolezza. E la domanda, a questo punto, è come abbiano fatto i democratici a trovarsi in una situazione simile. Nel 2020, Biden si apprestava a compiere 78 anni quando gli americani andarono al voto e il tema dell’età era stato affrontato: per questa ragione aveva scelto una figura come Kamala Harris come vice, anche con la prospettiva di lasciarle il testimone per la campagna del 2024. Tuttavia, la popolarità di Harris non è esplosa, diversamente tra i repubblicani Trump è stato scelto senza problemi come candidato presidente, consolidando il suo consenso nonostante i problemi giudiziari, e mentre nel mondo gli equilibri si facevano più delicati, in casa dem non sembrava percorribile cercare un’alternativa a Biden. Le ultime uscite pubbliche del presidente, che le gaffe le faceva pure da giovane, lo hanno però mostrato apparentemente più confuso e stanco e hanno portato al cambio in corsa e, paradossalmente, a optare proprio per quella staffetta che sembravano aver prospettato quattro anni fa.

    Sarà tutto semplice per i democratici? Tutt’altro. Se avevano scelto di non sostenere già da subito Kamala Harris è stato proprio per i dubbi sulla sua candidatura, e un cambio in corsa così a ridosso del voto è un elemento di debolezza, senza considerare possibili complicazioni nel ratificare la scelta della nuova candidata e del suo vice. Aver deciso che strada prendere è stato senza dubbio un elemento di chiarezza, ma questa strada verso il voto di novembre, per i democratici, è decisamente in salita.

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