«L’isolazionismo non era la risposta ottant’anni fa e non è la risposta oggi». È passato poco più di un mese dall’ottantesimo anniversario dello sbarco in Normandia. Considerata la più grande invasione anfibia della storia, l’operazione lanciata il 6 giugno del 1944 ha segnato un passaggio fondamentale verso la vittoria alleata nella Seconda guerra mondiale, con l’arrivo delle forze angloamericane nell’Europa nordoccidentale. La ricorrenza è stata l’occasione, per Joe Biden, di ricondurre alle sfide del passato quelle affrontate dalla sua amministrazione. Prima fra tutte la guerra in Ucraina, con le ricadute che il conflitto può avere sugli equilibri europei, e poi la possibilità sempre più concreta del ritorno di Donald Trump alla Casa bianca.
«Viviamo in un’epoca in cui, in tutto il mondo, la democrazia è più a rischio che in qualsiasi altro momento dalla fine della Seconda guerra mondiale», ha sottolineato di fronte ai leader e ai veterani presenti al cimitero americano di Colleville-sur-Mer.
Il messaggio è quello ribadito più volte da Biden e dai suoi collaboratori: quello cioè che l’elezione di novembre ha preso la forma di una sfida epocale tra democrazia liberale e autoritarismo, un bivio nell’esperimento democratico americano. Nelle ultime settimane però è diventato un boomerang.
La disastrosa performance nel dibattito con Trump ha infatti aperto una spaccatura tra la leadership del partito e la stampa mainstream, che ha contestato l’inadeguatezza di Biden proprio alla luce dell’importanza dell’appuntamento elettorale. Quella che doveva essere l’occasione per rilanciare la candidatura di Biden e rispondere ai dubbi dell’opinione pubblica ha avuto l’effetto contrario, offrendo l’immagine di un leader del mondo libero incapace di rispondere alle domande dei giornalisti, tanto meno di tenere testa a Trump.
«Per servire il suo Paese, il presidente Biden dovrebbe lasciare la corsa», ha titolato il comitato editoriale del New York Times, nelle stesse ore in cui il presidente statunitense assicurava che non avrebbe fatto alcun passo indietro. Il tentativo di rassicurare gli elettori e i finanziatori della sua campagna elettorale non è riuscito a mettere a tacere le voci di un cambio in corsa. Ma la visione delineata da Biden e dalla sua amministrazione, con un divario netto e insanabile tra il mondo democratico e quello guidato da Trump, rimarrebbe la stessa anche con un altro candidato.
Quattro anni dopo
Biden, 81 anni, è nato un anno e mezzo prima del D-Day mentre Trump, 77, è nato due anni dopo. Già nel 2020 avevano stabilito entrambi il record di candidati più anziani nella storia delle presidenziali. Due membri della stessa generazione, che hanno maturato nel corso degli anni opinioni distinte sul rapporto tra gli Stati Uniti e i loro alleati.
Per il democratico Biden, i legami con l’Europa sono un importante fattore di stabilità e un elemento essenziale nel sistema internazionale guidato da Washington. Trump tende invece a descrivere le spese per l’Alleanza atlantica come uno spreco, da accollare quanto più possibile agli alleati. In diverse occasioni, il magnate non ha mancato di esprimere affinità con i leader delle “autocrazie”, che l’amministrazione Biden contrappone alle “democrazie” del mondo libero. Primo fra tutti Vladimir Putin. A febbraio il tycoon ha ammesso che avrebbe invitato il capo del Cremlino a fare «quello che diavolo vuole» dei Paesi Nato che non pagano il dovuto. Il presidente russo, definito da Trump un «genio» e un leader «astuto» quando aveva lanciato l’invasione dell’Ucraina a febbraio 2022, ha ricambiato sostenendo che avrebbe preferito una vittoria di Biden perché «più esperto» e «più prevedibile». Trump lo ha ringraziato per avergli fatto «un grande complimento».
Successivamente Putin è sembrato tornare sui suoi passi, negando di avere preferenze sui candidati alla Casa bianca. «Non pensiamo che il risultato finale abbia molto significato. Lavoreremo con qualsiasi presidente eletto dal popolo americano», ha detto alla stampa straniera il 5 giugno, ribadendo che Mosca non si intrometterà nella politica interna degli Stati Uniti, accusa rivolta ripetutamente al Cremlino dai servizi di intelligence statunitensi. Allo stesso tempo, il presidente russo ha commentato i guai giudiziari di Trump, sostenendo che è stato danneggiato dai suoi rivali: «stanno bruciando se stessi dall’interno, il loro Stato, il loro sistema politico».
Il 30 maggio Trump è diventato il primo ex presidente nella storia americana a essere condannato per un reato. Una sorpresa per molti esperti, visto che il verdetto è arrivato nel processo di New York, a lungo considerato il meno rischioso per Trump. Invece l’ha spuntata il procuratore Alvin Bragg, che è riuscito a convincere la giuria su tutti e 34 i capi di imputazione riguardanti la falsificazione di documenti per le spese sostenute poco prima delle elezioni del 2016, quando i suoi collaboratori si erano precipitati per mettere a tacere la pornoattrice Stormy Daniels.
Nonostante i guai giudiziari, i passati scandali e le accuse di aver tentato un colpo di stato a gennaio 2021, Trump è stato per mesi il favorito nei sondaggi. L’ex presidente ha anche potuto festeggiare la recente sentenza favorevole della Corte suprema in uno dei quattro procedimenti in cui è coinvolto, che riguarda il tentativo di sovvertire le scorse elezioni. Con la decisione dei giudici, che hanno riconosciuto la presunzione di immunità per i cosiddetti atti «ufficiali» dei presidenti, processo federale inizierà quasi certamente dopo novembre.
Un suo ritorno alla Casa bianca non potrebbe più essere considerato un’aberrazione, come alcuni potevano ritenere all’inizio del suo primo mandato. Rimane però molta incertezza riguardo le reali conseguenze di una nuova amministrazione Trump, anche a livello internazionale.
L’agenda Trump
Alcuni alleati sperano che anche nel suo secondo mandato il costruttore newyorkese rinunci ad alcune delle sue idee più estreme, come è stato costretto a fare in diverse occasioni nel quadriennio 2017-2021, caratterizzato dallo scontro frequente tra l’ex star dei reality e gli elementi più moderati della sua amministrazione.
Una speranza vana secondo molti esperti, dal momento che molti dei presunti “adulti nella stanza”, come il segretario alla Difesa James Mattis, non faranno più parte della cerchia di Trump. Le sue idee sono ormai al centro del dibattito e sono diventate sempre più influenti all’interno del partito repubblicano. In caso di vittoria avrebbe certamente più libertà nella scelta dei suoi uomini.
Questo spalancherebbe le porte a un’interpretazione più inflessibile del principio “America First”, lo slogan degli Usa prima di tutto che Trump ha lanciato durante l’oramai lontana campagna del 2016. Una dottrina solo apparentemente isolazionista, secondo quanto scritto dal politologo Hal Brands in un articolo su Foreign Affairs.
Nel pezzo Brands ha tracciato un parallelo con gli isolazionisti degli anni Trenta, anche loro contrari all’idea che Washington dovesse essere responsabile del mantenimento dell’ordine globale. L’obiettivo sarebbe stato invece di preservare il dominio statunitense nell’emisfero occidentale, senza combattere contro Paesi che non rappresentavano una minaccia per gli Stati Uniti.
«Il legame cruciale tra Trump e il vecchio movimento “America First” è che lui vuole riportare il Paese a una visione più convenzionale dei suoi interessi all’estero», ha scritto il titolare della cattedra intitolata a Henry Kissinger alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies (Sais).
Anche l’America first di Trump includerebbe una «rinnovata dottrina Monroe», in cui l’arretramento dal Vecchio mondo si accompagnerebbe a maggiori sforzi «per salvaguardare l’influenza americana nel Nuovo mondo e per impedire ai rivali di ricavarsi uno spazio lì».
Dal punto di vista economico, gli Stati Uniti non si chiuderebbero in se stessi ma cercherebbero di intervenire in maniera più decisa, con misure sia protezionistiche che «predatorie», per rispondere a un mondo più competitivo.
Significative anche le ricadute sul piano della promozione della giustizia e dei diritti umani. Temi che l’amministrazione Biden ha cercato di porre, con crescente difficoltà, al centro del messaggio della Casa bianca. Trump invece non ne ha mai fatto una priorità.
Scenari pericolosi
Secondo Brands, una nuova amministrazione repubblicana potrebbe diventare un «modello di comportamento illiberale». Questo perché anche «gli aspiranti uomini forti all’estero» finirebbero per imitare i metodi «dell’aspirante uomo forte alla Casa bianca».
Nello scenario di un arretramento dagli impegni a difesa dello “ordine globale basato sulle regole”, gli Stati Uniti manterrebbero comunque il primato nell’emisfero occidentale. Rimarrebbero così la principale potenza al mondo, con meno vincoli nella ricerca di «vantaggi unilaterali». Nell’immediato, riuscirebbero a navigare la frammentazione dell’ordine economico globale meglio di altri, mentre in Europa e in Asia orientale molti Paesi sarebbero costretti a fare i conti con spese ingenti per la difesa e a incognite come quelle legate alla sicurezza delle rotte commerciali che attraversano il Medio Oriente. I rischi, secondo Brands, diventerebbero più evidenti in futuro.
A seguito del ridimensionamento statunitense, una Cina più potente potrebbe arrivare a esercitare pressioni sugli Stati Uniti, senza mai doverli provocare militarmente. Nello scenario più pericoloso, il Paese finirebbe per riconoscere tardivamente che lo sgretolamento dell’ordine globale non è stato nel suo interesse e cercherebbe di riprendere in mano la situazione, ma da una posizione peggiore. Un quadro che, secondo il politologo, ricorderebbe quello emerso dopo la Prima guerra mondiale. In quel caso «dovette trascorrere un’intera generazione prima che il mondo si sgretolasse al punto da spingere Washington a impegnarsi nuovamente». La morale, quindi, è che difendere l’ordine internazionale è nell’interesse degli Usa.
Lo pensa anche Joe Biden che durante il suo viaggio in Normandia, come ha spiegato il suo consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, ha voluto «tracciare una linea» dal Secondo conflitto mondiale alla Guerra fredda fino ai giorni nostri.
«Ottanta anni dopo, vediamo dittatori che tentano ancora una volta di sfidare l’ordine (globale, ndr), tentando di marciare in Europa, e che le nazioni amanti della libertà devono mobilitarsi per opporvisi, come abbiamo fatto noi», ha affermato Sullivan. Lo scopo di Biden, ha detto ai giornalisti, è di illustrare «i pericoli dell’isolazionismo, e come, se ci inchiniamo ai dittatori e non riusciamo a tenergli testa, loro vanno avanti e, alla fine, l’America e il resto del mondo pagano un prezzo ancora più alto».
Durante il suo viaggio Biden ha voluto visitare il cimitero americano di Aisne-Marne, lo stesso che era finito al centro di un caso durante l’amministrazione del suo predecessore.
Nel 2018 Trump aveva scelto di non recarsi al cimitero a causa di problemi logistici causati dal maltempo. Secondo il settimanale The Atlantic invece, la preoccupazione di Trump era legata all’effetto che la pioggia avrebbe avuto sui suoi capelli. Avrebbe inoltre sbeffeggiato i caduti americani, bollandoli come «idioti» e «perdenti». Il retroscena, smentito dall’allora presidente, è stato a lungo citato dai suoi avversari come ennesima prova della sua inadeguatezza e del suo fondamentale disprezzo per i sacrifici dei militari. «Quel tipo non merita di essere presidente», ha ribadito Biden prima della partenza per la Francia, facendo riferimento al caso.
Due pesi e due misure
Ma non c’è solo Trump a mettere in dubbio l’impegno di Washington a favore dello stato di diritto e dei diritti umani. Il perdurare della guerra in Ucraina e soprattutto il sostegno alla devastante offensiva israeliana nella Striscia di Gaza stanno continuando a scavare un solco tra gli Stati Uniti e i Paesi in via di sviluppo, che lamentano l’utilizzo di due pesi e due misure. A fine maggio il Brasile di Lula, che ha detto di avere un «buon rapporto» con Biden, ha ritirato il proprio ambasciatore in Israele. In precedenza, il Paese aveva espresso il proprio sostegno alla causa intentata dal Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia, dove lo Stato ebraico è accusato di genocidio contro la popolazione palestinese, mentre il presidente brasiliano era stato criticato per aver parlato di “Olocausto” a Gaza.
La situazione nel territorio palestinese, in cui dal 7 ottobre le forze israeliane hanno ucciso almeno 37mila persone, ha spinto le ong internazionali a puntare il dito non solo contro Israele ma anche contro l’amministrazione statunitense. «Riteniamo che agli Stati Uniti spetti una parte molto grande di responsabilità per il fatto che questa guerra crudele continui da otto mesi», ha detto durante un’intervista a Sky News la segretaria generale di Amnesty International, Agnes Callamard.
Secondo la diplomatica francese, ex relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie, gli Stati Uniti «continuano ad armare Israele contro ogni logica: se vuoi fermare una violazione, allora smetti di armare». Gli Stati Uniti, ha accusato Callamard, «non hanno tracciato linee chiare», e quindi «hanno tradito il popolo israeliano, il popolo palestinese e, attualmente, il mondo intero, perché stanno distruggendo l’ordine basato sulle regole». Come dire che per certe cose non c’è bisogno di aspettare il ritorno di The Donald.
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