Nel settembre 2017 nove membri di una famiglia nomade britannica, i Rooney, sono stati condannati a una pena totale di 79 anni di carcere per aver fatto lavorare in condizioni di schiavitù 18 persone nell’arco di quasi 30 anni.
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Le vittime alle dipendenze dei Rooney, tutte di età compresa tra i 18 e i 63 anni, erano costrette a vivere in roulotte fatiscenti senza acqua corrente e i servizi di base.
Tra loro soprattutto individui senza fissa dimora e con problemi di tossicodipendenza o alcolismo, resi ancora più gravi dall’unica modalità di pagamento prevista dai Rooney per le retribuzioni dei lavoratori: scorte di sidro scadente.
Oltre a vivere e lavorare in condizioni assai precarie, i 18 dipendenti dei Rooney venivano spesso picchiati e puniti dai loro aguzzini per non aver svolto a dovere i loro compiti.
“Un inferno in terra”, come lo ha descritto il giudice Timothy Spencer. Tutto questo mentre i Rooney, arrestati l’anno scorso nel Lincolnshire, una contea britannica nella regione delle Midlands orientali, godevano dei profitti del lavoro dei loro moderni schiavi, conducendo una vita tra lusso e viaggi alle Barbados.
Un abisso tra due mondi paralleli, che Spencer ha presentato come quello esistente nel Medioevo tra i nobili latifondisti e i servi della gleba.
A distanza di pochi mesi, con i nove Rooney condannati per i reati di schiavitù moderna e truffa, il quotidiano britannico “The Guardian” ha pubblicato la testimonianza di una donna il cui fratello ha lavorato per ben 26 anni al servizio della famiglia del Lincolnshire.
Per poco più di un quarto di secolo l’uomo, il cui vero nome non è stato reso pubblico, è stato privato della sua dignità e costretto a lavorare in condizioni disumane, senza avere la possibilità di avere rapporti con i suoi familiari che lo credevano ormai perso per sempre.
Come racconta la sorella, sin da giovanissimo l’uomo soffriva di problemi comportamentali. Facilmente manipolabile, poco dopo l’adolescenza era stato travolto da un vortice di alcol e droga che ben presto lo aveva portato ad allontanarsi sempre più frequentemente da casa, fino a sparire del tutto dopo aver compiuto 25 anni.
Dopo i primi soccorsi e l’identificazione, le forze dell’ordine hanno contattato l’incredula sorella, che ha così descritto la prima telefonata con il fratello creduto morto per decenni: “All’inizio rispondeva per monosillabi e con un tono di voce inespressivo. Sapevo che dopo un’esperienza simile non poteva non essere sconvolto. Ma quando ho passato il telefono a mia madre, ha detto di essere felice di aver avuto la possibilità di riascoltare nuovamente la sua voce”.
“Abbiamo provato a non farci sopraffare dalle emozioni, ma quando ci siamo salutati siamo scoppiati a piangere”, ha aggiunto la donna.
Dopo ben due mesi, infine, il tanto atteso incontro in carne e ossa tra la famiglia e l’uomo. Un’occasione meno felice di quanto possa credersi però, come ricorda la sorella: “Era chiaro che gli anni di schiavitù non avevano fatto altro che aggiungere altri, enormi problemi a quelli già esistenti prima che sparisse”.
Disabituato a vivere in mezzo alla società, l’uomo “mangiava l’insalata con le mani, rideva senza motivo e a voce troppo alta e non era in buone condizioni fisiche. Gli mancavano diversi denti e i pochi rimasti erano marci”.
La via per il recupero sembra ancora molto lontana: l’uomo continua ad avere gravi problemi con l’alcol ed è affetto dalla sindrome di Stoccolma, mostrando ancora una certa empatia nei confronti dei suoi aguzzini, descritti come “bravi ragazzi che si prendevano cura di me”.
Tuttavia, nonostante le evidenti difficoltà, i rapporti con la famiglia sono tornati a essere sereni e più frequenti rispetto al passato.