«Una ragazza iraniana che faceva da traduttrice tra noi e la polizia mi ha chiesto se sapevo dove mi trovassi. Non lo sapevo. Allora mi ha chiesto perché, fino a poche ore prima, ero nascosto tra le bottiglie di Coca-Cola nel retro di un camion imbarcatosi sul traghetto che da Patrasso era diretto a Venezia. Non sapevo nemmeno questo. Non sapevo dove andavo, perché andavo, da mesi non mi chiedevo più niente».
Ho conosciuto Hakim sei anni fa, pochi mesi dopo il suo arrivo a Venezia dall’Afghanistan. Aveva 15 anni, o così diceva, ed era ospite di un centro di accoglienza che cercava studenti che dessero ripetizioni di italiano e matematica.
Io qualcosa di matematica ci capivo, così una o due volte alla settimana ci sedevamo insieme per districarci in un labirinto di numeri persiani che si confondevano tra le righe di problemi di matematica in italiano. Hakim non parlava tanto e conoscevo solo vagamente i dettagli del suo viaggio verso l’Europa.
Oggi, dopo sei anni, è venuto a Roma per raccontarmi la sua storia.
Nel 2013 sono sbarcati sulle coste italiane quasi 43.000 (42.925) migranti clandestini, il 325 per cento in più rispetto al 2012. Secondo i dati pubblicati dal Ministero dell’Interno, il primo paese di provenienza è la Siria, con 11.307 migranti (nel 2012 erano solo 582), seguito dall’Eritrea (9.834), la Somalia (9.263) e l’Egitto (2.618).
Di questi, 3.800 erano minori non accompagnati. Nel 2007 Hakim era uno di loro.
Il più delle volte arrivano in gommoni o pescherecci strabordanti in condizioni igieniche deplorevoli, spesso pagando i risparmi di una vita per farsi imbarcare dai contrabbandieri. Molti fuggono zone di guerra e dittature politiche, dalla Siria all’Eritrea, e arrivano in Europa chiedendo di essere riconosciuti come rifugiati. Tanti altri semplicemente inseguono la speranza di una vita migliore.
Nel corso del 2007 sono stati accolti nel Sistema italiano di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR) 195 minori: il 54 per cento veniva dall’Afghanistan. Oggi la maggior parte sbarca sulle coste della Sicilia e a Lampedusa, ma nel 2007 i porti di Venezia, Ancona, e Bari erano i principali punti di approdo dei minori non accompagnati.
Anche Hakim è arrivato così in Italia, dopo cinque mesi di viaggio. Un viaggio che dall’Afghanistan lo ha portato ad attraversare l’Iran, la Turchia e la Grecia.
La famiglia di Hakim è dell’Helmand, una provincia nel sud dell’Afghanistan. All’età di 8 anni, i genitori, che non possono permettersi di mantenerlo, lo mandano a lavorare dagli zii materni a Kabul. «Lavoravo nel loro negozio di alimentari. Poi dopo un anno e mezzo, mio fratello maggiore ha deciso di andare a cercare lavoro in Iran, e mi hanno mandato con lui».
Arrivati a Teheran, i due fratelli trovano lavoro in una fabbrica che produce scatole di cartone. «Fai scatolette, chiudi e graffetta, chiudi e graffetta», risponde quando gli chiedo quale fosse il suo compito. Un anno e mezzo dopo, «nel 2002, iniziavano ad arrivarci voci della guerra in Afghanistan e dell’arrivo degli americani. Tutti dicevano che era tornata la libertà e che si poteva trovare lavoro.» Così Aman e Hakim tornarono in Afghanistan.
Già nel 2004, però, sono di nuovo nella fabbrica di cartone a Teheran. In Afghanistan, le speranze per l’arrivo degli americani si trasformano in breve nella paura e la povertà di una guerra destinata a durare più di dieci anni.
«Non facevo la fame in Iran, ero povero, ma guadagnavo abbastanza per sopravvivere». In fabbrica tutti parlavano dell’Europa, soprattutto di Londra e del Nord Europa. «Dicevano che in Europa c’è la libertà e chi ci arriva può sperare nel proprio futuro. Quando lavori, mangi e dormi lì dentro (nella fabbrica, ndr), ti sembra di non aver niente da perdere».
Così Hakim decide di partire, sperando di arrivare a Londra, dove viveva uno dei suoi fratelli. La strada per raggiungere il Regno Unito è lunga, soprattutto se a portartici non è un Boeing 737 ma i tuoi piedi, o al massimo un camion merci.
Nel racconto di Hakim, mi colpisce la lentezza di quel viaggio attraverso i confini di quattro stati che per me, figlia di Westfalia con un passaporto europeo, sono tratti scuri sulle cartine geografiche, o al massimo interminabili file al controllo passaporti.
Stando alle sue memorie, Hakim arriva a Istanbul a piedi e a tratti accucciato nel retro di un furgone. Qui paga i contrabbandieri per salire con altri cinque ragazzi su un gommone a remi. «Ci hanno dato delle pagaie e ci hanno detto di bucare il gommone una volta arrivati in Grecia per renderlo inutilizzabile, altrimenti ci avrebbero rimandati indietro. Potrei stare qui ore a descrivere quella notte, è stata la più lunga della mia vita. Non sapevo nuotare e il cielo e il mare erano dello stesso nero, solo che nel mare non c’erano le stelle».
Arrivato in Grecia e abbandonato dai compagni di viaggio più grandi di lui, Hakim decide di cercare la via per Patrasso perché aveva sentito che da lì partivano le navi «per altri paesi, fuori dalla Grecia». «Nessuno si ferma in Grecia, si sa che non c’è lavoro, nessuno ci si vuole fermare. Chi parte lo fa per arrivare a Londra».
Ancora una volta con l’aiuto di un contrabbandiere, Hakim arriva a Patrasso dopo più di mese, stando attento a non farsi prendere le impronte digitali che, secondo la politica europea sull’immigrazione, lo avrebbero legato alla Grecia. Infatti, per la legge europea (e in particolare il Regolamento di Dublino II), i migranti che intendono richiedere asilo devono farlo nel primo paese europeo in cui approdano. Se le autorità avessero registrato Hakim in Grecia, richiedere asilo in qualsiasi altro paese europeo sarebbe stato inutile: lo avrebbero sempre e comunque rispedito al mittente.
Oltre al fatto che «si sa che non c’è lavoro», il sistema di accoglienza in Grecia e la mancanza di protezione per i minori non accompagnati sono stati apertamente criticati dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR o UNHCR), ma anche dall’ European Council for Refugees and Exiles (ECRE) e da Amnesty International.
Nel 2011, a seguito di una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (ECHR), che condannava la violazione dei diritti umani subita da richiedenti asilo detenuti in Grecia, alcuni paesi europei hanno sospeso temporaneamente le deportazioni verso questo Paese.
Torniamo a Patrasso, dove Hakim trova accoglienza – se così si può chiamare – in una tendopoli dello UNHCR. Mi racconta dei suoi giorni in attesa: «Non avevo più soldi e senza l’aiuto dei contrabbandieri era difficile sapere quali camion si imbarcassero per l’Europa. Ogni giorno passavo una o due ore nascosto dietro o sotto un camion. Non partivano mai. Una volta sono partito, ma quando il camion si è fermato, due ore dopo, ero di nuovo su un’isola greca, non in Italia».
Un mese e svariati tentativi fallimentari dopo, un afghano – anche lui immigrato – di nome Yasir e fermatosi a Patrasso per fare un po’ di soldi come contrabbandiere, decide di aiutarlo. Un pomeriggio indica ad Hakim un camion di bibite in cui nascondersi e aspettare. È il camion “giusto”.
Hakim, come mi mostra sul suo permesso di soggiorno, è arrivato a Venezia l’8 settembre 2007. Da allora ha studiato quattro anni in Italia in una scuola professionale e ora lavora come elettricista presso una piccola impresa di Mestre, in provincia di Venezia. Guadagna 850 euro al mese, con cui ha preso in affitto una stanza e comprato il suo primo biglietto aereo. Per andare a trovare la sua famiglia in Afghanistan. Tornerà in Italia, ma sogna, un giorno, di tornare a vivere in Afghanistan e lavorare lì come elettricista o come costruttore.
Oggi Hakim ha 21 anni. La sua è una storia difficile, di un bambino che ha iniziato a lavorare a 8 anni. Come tanti, ha intrapreso il viaggio della speranza, in cui le scelte e le motivazioni che lo avevano deciso a partire si sono sbiadite e hanno lasciato spazio alla necessità e forse l’inerzia di continuare ad andare e non poter voltarsi indietro. «A un certo punto», mi dice, «perdi tutti i sensi e non hai più idee, pensi che non rivedrai mai la tua famiglia, né che arriverai vivo da qualche parte nel modo».
Ma è anche la storia di un ragazzo che ce l’ha fatta, che non solo è arrivato, ma ha potuto anche studiare, trovare un lavoro e oggi, in meno di 12 ore, volare a Kabul e poi tornare in Italia.
È stato fortunato. In pochi arrivano a destinazione. Molti arrivano a Lampedusa, vengono registrati e smistati in centri di accoglienza o addirittura in Bed and Breakfast. Il 28 maggio, il ministro dell’Interno Alfano ha reso noti i dati sull’immigrazione per i primi cinque mesi del 2014: da gennaio sono sbarcati sulle coste italiane quasi 40.000 immigrati (39.538). Alcuni arrivano a Roma, in cerca di lavoro. Molti se ne vogliono andare. Dormono per strada, ai margini delle stazioni e, senza lavoro, vivono con l’assistenza della Caritas.
A dicembre 2013 lo SPRAR ha raggiunto una capacità di 9.600 posti, triplicati rispetto ai 3.000 dell’anno precedete. A febbraio di quest’anno il Ministero dell’Interno ha annunciato l’ampliamento del sistema di accoglienza fino a 19.000 mila posti, insieme al finanziamento di percorsi specifici di integrazione sociale e lavorativa per permettere agli immigrati minori non accompagnati di rimanere in Italia anche dopo il raggiungimento della maggiore età.
Questi sforzi da soli non bastano; è necessaria una maggiore integrazione a livello europeo, che, come dimostra il tanto dibattuto regolamento di Dublino II, si fatica a raggiungere. Il numero di immigrati che cercano rifugio in Europa – in aumento del 32 per cento tra il 2012 e il 2013 – si scontra con il risultato positivo ottenuto dai nuovi schieramenti politici nelle elezioni per il parlamento europeo del 25 maggio. Del resto, in Gran Bretagna e in Francia hanno trionfato partiti anti-europeisti e xenofobi, che non promettono un facile dialogo sul tema dell’immigrazione.