Malala Yousafzai è la donna dell’anno, almeno lo è per la giuria del Raw War 2013 (Reach All Women in War) che il 4 ottobre scorso ha conferito alla 16enne pachistana – ferita un anno fa dai talebani – il premio Anna Politkovskaja riservato ai difensori dei diritti umani in zone di guerra; soprattutto alle figure femminili impegnate sul fronte della difesa dei diritti umani.
Il premio prende il nome dalla giornalista russa, Anna Politkovskaja, uccisa nel 2006 in circostanze ancora oggi poco chiare, trovata morta nel palazzo della sua casa a Mosca, accanto a un proiettile che l’aveva colpita alla testa.
Un destino simile è quello a cui Malala stava per andare incontro incontro il 9 ottobre 2012, quando un commando di talebani decise di spegnere la sua voce e la sua esistenza con una pallottola alla testa, mentre usciva da scuola insieme ad altre coetanee.
È trascorso un anno dall’attentato. Nonostante le continue minacce di morte ricevute – le ultime proprio in questea ore in cui i riflettori si sono riaccesi sulla sua storia personale – Malala è riuscita a sopravvivere grazie alle cure ricevute prima al Combined Military Hospital di Peshawar, la migliore struttura medica della regione, e poi al Queen Elizabeth Hospital di Birmingham dove venne trasferita il 15 ottobre 2012 in fin di vita.
Di vite Malala sembra averne vissute diverse, a partire da quel lontano 2009 quando appena dodicenne decise di tramutare le sue parole e i suoi pensieri in denunce verso il sistema talebano, che impediva alle ragazze come lei di frequentare la scuola. Parole che sono diventate in seguito un diario personale e quotidiano pubblicato sul sito urdu della Bbc.
Qui Malala raccontava puntualmente ciò che accadeva nella sua scuola nella valle della Swat, divenendo così la paladina dei diritti negati e violati delle studentesse pachistane. “Mia madre mi ha preparato la colazione e sono andata a scuola. Avevo paura di andare a scuola, perché i talebani avevano emesso un editto che vietava a tutte le ragazze la possibilità di recarsi a scuola.”
Così scriveva Malala nel suo diario personale il 3 gennaio 2009. E ancora: “Oggi solo 11 studenti su 27 hanno seguito le lezioni nella mia classe. Il numero è diminuito a causa dell’editto dei talebani. Tre dei miei amici si sono spostati con le loro famiglie a Peshawar, Lahore e Rawalpindi.”
L’editto di cui parla Malala era stato emanato dal leader talebano locale, Mullah Fazlullah, alla fine del 2008. Sulla base di questo editto, tutta l’istruzione femminile doveva cessare entro un mese; se il divieto non veniva rispettato allora le scuole avrebbero subito gravi conseguenze.
La ragazzina pachistana che difende il diritto allo studio e all’istruzione in Pakistan e nei paesi dove vige ancora il divieto, è ormai un simbolo globale. Il 12 luglio, nove mesi dopo la sparatoria, fa la sua prima apparizione pubblica sul palco delle Nazioni Unite di New York, dove si rivolge ad una platea di studenti e diplomatici appositamente riuniti. Qui pronuncia il suo memorabile discorso sulla metafora della penna più potente delle armi “Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo”, disse nel giorno del suo sedicesimo compleanno. Per Malala “l’istruzione è l’unica soluzione; l’istruzione è la prima cosa.”
E alle critiche spesso rivolte alla giovane pachistana per la sua sovraesposizione mediatica, Malala risponde: “Tutti possono esprimere la loro opinione, è un loro diritto, come è un mio diritto dire quello che voglio. E quello che voglio è fare qualcosa per l’istruzione, è il mio unico desiderio. L’educazione è l’educazione. Se sto imparando a fare il medico dovrei fare distinzione fra uno stetoscopio orientale o uno stetoscopio occidentale. Allora ci sarebbe un termometro orientale e uno occidentale?”.
Malala Yousefzai è stata inserita nell’elenco dei candidati al Premio Nobel per la Pace, che verrà consegnato l’11 ottobre prossimo a Oslo.
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