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    Un giorno nella vita di un palestinese di Gerusalemme

    Zac Sabella è un giovane palestinese che vive a Gerusalemme. Ecco il suo racconto di ciò che è avvenuto il 12 ottobre scorso nella Città Santa

    Di Zac Sabella
    Pubblicato il 3 Nov. 2015 alle 11:00 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 09:02

    In una riunione a Betlemme questa mattina, un collega seduto di fronte a me riceve una telefonata. La sua espressione cambia e appare all’istante molto preoccupato. Gli chiedo che cosa sia successo e mi risponde: “Hanno ucciso Mustafa, il figlio del mio collega Adel. Dobbiamo interrompere la riunione, dobbiamo andare via”.

    Vado subito a verificare online quello che mi sta dicendo, basandomi su fonti di notizie israeliane e palestinesi. La discrepanza nei rapporti è evidente.

    La stampa israeliana ha dipinto Mustafa come un terrorista che ha cercato di accoltellare un poliziotto israeliano alla Porta dei Leoni della Città Vecchia di Gerusalemme, mentre la stampa palestinese, in linea con i racconti di diversi testimoni oculari, riporta tutta un’altra storia.

    Mustafa è stato ucciso dopo aver rifiutato l’ordine del poliziotto di rimuovere le mani della tasche. Immagini di Mustafa – sdraiato in una pozza di sangue, spogliato dei suoi abiti dalla polizia israeliana – confermano la versione palestinese: non c’è nessun coltello o cacciavite in giro.

    Tornando a casa da Betlemme, percepisco una sensazione di ansia per le strade di Gerusalemme. Ci sono la polizia israeliana, gli agenti di controllo delle frontiere e un’unità di commando ogni 100 metri.

    Mi avvicino a un incrocio principale sulla Road One e vedo un uomo israeliano che sventola una grande bandiera nazionale con una striscia di stoffa arancione attaccata alla parte superiore. Il colore arancione del panno è quello associato ai coloni israeliani.

    Mentre continuo a guidare verso il mio quartiere di Beit Hanina, passo di fianco ad altre automobili con bandiere israeliane che sventolano dai finestrini.

    Un autista israeliano tiene una grande bandiera nella mano sinistra, mentre la destra è appoggiata al volante. Si ha la sensazione che sia un giorno di festa nazionale in Israele.

    Quando arrivo a Beit Hanina mi fermo a comprare un po’ di pane dal mio fornaio locale. Mentre sono al bancone entra un uomo anziano dall’aria afflitta e visibilmente in ansia. Lo guardo e gli chiedo che cosa c’è che non va. Lui mi guarda e mi chiede:

    “Hai mai visto qualcuno sparare a qualcun altro davanti ai tuoi occhi?“.

    Gli dico per fortuna no. Mi risponde: “Io sì, proprio ora. La stavano inseguendo, cinque di loro si stavano facendo beffa di lei, cercando di tirarle via l’hijab, spaventandola. Lei era pietrificata”.

    Cerco di calmarlo, ma lui continua.

    “Nell’attimo in cui ha attraversato la strada, un agente di frontiera è saltato fuori dal nulla e ha esploso cinque colpi di pistola verso la ragazza, a brucia pelo. È stata un’esecuzione spietata e non riesco a cancellare l’immagine dalla mia testa”.

    L’anziano sta parlando di Farah Bekir, una studentessa di 17 anni del vicino liceo Abdallah Ben Al-Hussein. Mi rendo conto solo più tardi che l’uomo israeliano che sventolava la grande bandiera per strada si trovava nello stesso punto in cui hanno sparato a Farah, e stava celebrando la sua fucilazione.

    In quel momento, mi squilla il telefono. È mia moglie Lisa che mi dice di evitare di guidare attraverso il vicino insediamento di Pisgat Zeev. Mi dice che hanno appena sparato a un bambino palestinese di 12 anni con l’accusa di aver tentato di pugnalare un colono israeliano. Controllo il mio telefono per le notizie, e l’immagine del dodicenne palestinese che giace nella pozza del suo stesso sangue mi traumatizza.

    Penso tra me e me: se possono sparare ai bambini senza battere ciglio, io potrei essere il prossimo in qualsiasi momento, basta che qualche israeliano decida di accusarmi di aver tentato di attaccarlo, di avergli rubato il gatto o di qualsiasi altro crimine arbitrario o inventato.

    Sembra che le regole d’ingaggio militari siano state allentate a tal punto da permettere di uccidere sul posto quasi ogni palestinese che sembri comportarsi in maniera sospetta.

    Ciò è in linea con un post pubblicato di recente su Facebook da un attivista pacifista israeliano che lavora per ICAHD-USA e che conferma che, secondo le sue fonti all’interno del governo israeliano, la leadership israeliana ha dato il via libera a poliziotti e soldati per sparare prima e fare domande dopo.

    Chi spara a un palestinese viene immediatamente ricompensato con elogi da parte della popolazione israeliano e lodato come un eroe nazionale che ha fatto la sua parte per salvare il popolo d’Israele.


    Apro la porta di casa e vedo la mia bellissima bambina di tre settimane, Naya, che mi aspetta. La afferro, la bacio e ringrazio Dio di essere riuscito a tornare a casa sano e salvo questa volta. Ma sono preoccupato.

    Da giovane palestinese rischio di essere colpito in qualsiasi momento nella mia stessa città, soprattutto se il mio comportamento viene considerato sospetto da un poliziotto israeliano troppo zelante, dal grilletto facile e desideroso di lode.

    La parte più spaventosa di tutto questo è che nessuno del governo israeliano, della polizia o della popolazione si preoccuperebbe di avviare un’indagine o porsi delle domande se ciò dovesse accadere.

    È stato così per ogni uccisione extragiudiziale dei palestinesi che ha avuto luogo nelle ultime due settimane. L’uccisione dei palestinesi nella società israeliana è diventata un elemento di routine tanto quanto lo è bere acqua e che, come ha confermato il giornalista Gideon Levy in un suo recente articolo per il quotidiano israeliano Haaretz, viene celebrata dalla stragrande maggioranza della popolazione israeliano.

    Allo stesso modo è accaduto per quell’uomo che era sulla strada principale dove Farah è stata uccisa, sventolando la bandiera israeliana, schernendo i residenti non ebrei della città e festeggiando la fucilazione della ragazza.

    Ecco Gerusalemme oggi. Questo è un giorno nella vita di un palestinese di Gerusalemme.

    * Zac Sabella è un giovane palestinese che vive a Gerusalemme. Ha un master in politiche pubbliche dall’Università di Oxford e lavora nel campo dello sviluppo. L’articolo è stato originariamente pubblicato qui, il 12 ottobre 2015. Traduzione a cura di Sabika Shah Povia 

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