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    “Tutti hanno finto di non vedere quello che il mio patrigno stava facendo”

    L'autrice Katherine Fugate con la madre.

    La violenza domestica è solo un problema della famiglia in cui avviene? Nella sua forte testimonianza Katherine Fugate mostra che non è così

    Di Anna Ditta
    Pubblicato il 22 Nov. 2017 alle 16:27 Aggiornato il 12 Set. 2019 alle 00:31

    Inizia da qualche parte. Inizia in casa. Io so che aspetto può avere l’autore di una sparatoria di massa.

    La prima volta che lo vidi avevo 13 anni. Il sole non era ancora sorto e io indossavo la mia divisa di atletica. Mi versai una scodella di burro d’arachidi Captain Crunch, mi girai e lui era lì, seduto al tavolo di formica rotondo e azzurro, che leggeva il giornale e beveva una tazza di caffè.

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    Era un uomo robusto. I capelli ondulati e la barba erano un intrecciarsi di nero e bianco. Aveva gli occhi azzurri. Un Babbo Natale in un supermercato.

    Mi sorrise. Si presentò. Ero in ritardo per gli allenamenti. Quindi gli dissi di lavare i piatti prima di andarsene.

    Mia madre lo aveva incontrato la notte precedente. La sala da bowling era il posto giusto in cui trovarsi nella nostra piccola città, con un bar affollato, campionati notturni di bowling, trofei giganti e una sala con i videogame.

    Normalmente andavamo con lei, abbuffandoci di pizza e Dr. Pepper, ma la mia sorella più piccola era malata. Quindi mia madre andò da sola, lo incontrò e lo portò a casa.

    Era un po’ che cercava un uomo. Era una madre con tre figlie piccole. Non aveva un lavoro. Una situazione che sarebbe stata molto impegnativa per chiunque. Le sue seconde nozze si erano concluse un anno prima. Lui cominciò a dormire nella sua stanza ogni notte dopo che si incontrarono.

    Alcune settimane dopo, mi svegliai e scoprii che se ne erano andati entrambi. Era la mattina della vigilia di Natale. Lei aveva lasciato un biglietto. Erano andati a Las Vegas, un tragitto di quattro ore di macchina. “Bada alle tue sorelle per favore”. Sarebbero tornati quella sera.

    Non ero pazza. Ero speranzosa. Lei era sola, beveva di più e il bucato si stava ammassando in garage. Lui la risollevò facilmente, la fece girare per le stanze con allegria, e comprò per noi tre nuove biciclette di marca.

    Volevo che per mia madre questa volta funzionasse. Tutte lo volevamo.

    La mattina di Natale mi svegliai all’alba e loro non erano ancora tornati a casa. L’albero di Natale era decorato e le luci rosse e verdi brillavano nell’attesa, ma i biscotti e il latte non erano stati toccati. Mangiai i biscotti, bevvi il latte, e poi rubai i soldi di mamma dalla sua scatola dei sigari.

    Presi la nuova bicicletta che lui mi aveva comprato, e pedalai al buio fino al 7-Eleven su Grand Avenue, dove comprai dei regali per conto di Babbo Natale. Acquistai dei dischi per le mie due sorelle. I 45 giri di I Think I Love You di The Partridge Family e I Don’t Like Spiders and Snakes di Jim Stafford.

    Noi tre insieme avevamo una band chiamata “Wonder.” Io suonavo la batteria su un set di stoviglie d’argento, mentre loro il tamburello e le maracas. Nostra madre era il pubblico migliore – oltre a essere il solo – che ci ascoltasse.

    Al negozio, comprai tutte le caramelle, le bolle di sapone e i giochi di plastica che potevo permettermi. Poi acquistai un’altra cosa. Un regalo per mia madre. Il 45 giri di You and Me Against the World di Helen Reddy.

    “When all the others turn their backs and walk away

    You can count on me to stay…”

    Volevo che sapesse che io sarei rimasta.

    “And when one of us is gone

    And one of us is left to carry on

    Remembering will have to do…”

    Volevo che sapesse che mi sarei ricordata di lei.

    Guidai la mia bicicletta verso casa mentre il sole si alzava. Incartai i regali di Natale e li misi sotto l’albero. Preparai velocemente i pancakes, che mia madre aveva sempre fatto per noi la mattina di Natale. Le mie sorelle si svegliarono poco dopo e aprirono i loro regali. Se furono deluse dai piccoli doni, non lo diedero a vedere. Tirammo fuori le pentole d’argento, suonammo i dischi e cantammo le canzoni. Fu una felice mattina di Natale. Mancava solo il nostro pubblico.

    Mia madre telefonò alcune ore dopo. Stavano tornando da Las Vegas. Potevo trovare un ristorante aperto per la cena di Natale? Cercando nelle Pagine Gialle, prenotai nel ristorante cinese di una cittadina vicina. Fu lì che mia madre ci mostrò il suo anello di diamanti e ci disse che si sarebbero sposati. Dal giorno successivo, lui visse con noi. I cambiamenti avvennero piuttosto in fretta.

    Non mi è mai piaciuta la carne. Anche quando ero molto piccola, mia madre diceva che sputavo il manzo. Per cena mia madre preparò polpettone, il suo piatto preferito. Mi diede i contorni: purè di patate, taccole, maccheroni e formaggio. Lui insisté affinché io mangiassi il polpettone. Io dissi che non lo avrei fatto. Mia madre prese le mie difese. Ma lui era l’uomo di casa adesso. Non avrei potuto lasciare il tavolo finché non avessi mangiato il polpettone.

    Mia madre mi svegliò la mattina dopo. Mi ero addormentata. Lei aveva un occhio nero. Non lo vidi mai picchiarla. Ma non dovetti mangiare il polpettone.

    Le comprò una Lotus rossa, una costosa macchina sportiva con il cambio manuale. Poi partirono di nuovo per Las Vegas e ci lasciarono da sole.

    Rubai le chiavi della macchina di mia madre e accompagnai le mie sorelle a scuola con la Lotus nuova fiammante. Imparai da sola a guidare con il cambio manuale, ma non molto bene, perché sbattei contro un albero nel parcheggio della scuola. Gli alunni mi fissarono, gli insegnanti mi fissarono. La macchina fu portata via dal carroattrezzi.

    Avevo 14 anni e non avevo la patente. Chiamarono mia madre a Las Vegas. Lei tornò con un occhio nero, il labbro spaccato e un braccio graffiato malamente afflosciato sul suo fianco. Lui entrò in casa senza dire una parola. Lei guardò verso di me e disse piano: “ho sopportato per te”.

    Era colpa mia se la macchina era rotta. Era colpa mia se lui l’aveva picchiata.

    Mia madre iniziò a bere di più. Lui iniziò a bere di più. I litigi si fecero più frequenti. Una rappresentazione sacra della passione a cui noi facevamo da pubblico. Essere genitori andò in secondo piano. Quando a casa finiva il cibo, io e le mie sorelle prendevamo un taxi fino al supermercato, con il libretto degli assegni di mia madre. Riempivamo il carrello, e non con delle scelte molto appropriate. Di fronte al cassiere, compilavo attentamente l’importo dell’assegno e poi falsificavo la firma di mia madre. Era una città piccola.

    Tutti sapevano il motivo. Ma nessuno diceva nulla.

    Ciò che permettiamo continua. E ciò che continua si intensifica.

    La vita divenne una routine. Quando i litigi iniziavano al piano di sotto, le mie sorelle lasciavano le loro stanze e venivano nella mia. Il giradischi suonava. La collezione di dischi cresceva. Imparai quale sedia mettere sotto il pomello per tenere la porta della mia camera chiusa. Imparai quale correttore funzionava meglio per coprire i suoi lividi la mattina successiva. A volte venne l’ambulanza. A volte lei indossava gli occhiali da sole, una felpa larga e un grande cappello elasticizzato quando portava fuori i cani.

    Tutti sapevano. Ma nessuno disse nulla.

    Ciò che permettiamo continua. E ciò che continua si intensifica.

    Ci furono momenti di speranza. Perché nessuno è arrabbiato o violento tutto il giorno, tutti i giorni. Basta un giorno soltanto.

    Mia madre ci svegliava nel mezzo della notte, dicendoci di preparare una valigia. Ci chiudevamo in un hotel. Come spie della malavita, come persone evase di prigione. Ordinavamo del cibo, guardavamo le Charlie’s Angels, sperando di non essere mai trovate.

    Ma non eravamo mai davvero irreperibili, perché uno o due giorni dopo lui bussava alla porta dell’hotel, con dei fiori in mano. Ed era finita. Perché chi non vuole andare a Disneyland? Chi non vuole essere il primo nel vicinato ad avere una piscina?

    Mia madre odiava le pistole, quindi in casa nostra non ce n’erano. Io dormivo con un coltello da macellaio sotto il mio cuscino.

    Una volta lo usai. Avevo 16 anni. Il litigio al piano di sotto si fermò, all’improvviso, nel mezzo di un urlo di mia madre. Chiamai il 911 e poi scesi al piano di sotto. Lui era curvo sul suo corpo. Lei era sul pavimento, in una pozza del suo stesso sangue. Gli misi il coltello sulla nuca per impedire che uccidesse mia madre. L’ambulanza arrivò e la portarono via. Venne la polizia e lo portarono via.

    Noi sgattagliolammo nel cortile sul retro dei vicini e dormimmo sui loro mobili da giardino. Ci svegliammo coperte da lenzuola. Sicuramente, loro sapevano.

    Tutti sapevano. Ma nessuno disse nulla.

    Ciò che permettiamo continua. E ciò che continua si intensifica.

    Alcune settimane dopo, mi chiamarono mentre ero a lezione di inglese a scuola. Mia madre era lì e voleva parlarmi. Era Halloween. Io ero vestita da vampiro, con il mio lungo mantello nero che svolazzava. Lei, appena dimessa dall’ospedale, sembrava una mummia, con gli occhi infossati, la testa rasata e i suoi 32 punti avvolti da bende bianche. C’erano le lezioni in corso, quindi eravamo sole. Aveva pagato la sua cauzione. Lui si era scusato. Stava aspettando a casa. Gli avrei dato un’altra possibilità?

    Mia madre venne nella mia scuola, a chiedermi di non rompere con lei.

    “When all the others turn their backs and walk away

    You can count on me to stay…”

    Mi si spezzò il cuore quando non tornai a casa da scuola quel giorno. Mia madre poteva  “sopportare” per me, ma io non potevo più sopportarlo. Mia sorella di 13 anni, quella di mezzo, scappò via di casa. Nostro padre, che si era risposato e aveva due bambini piccoli, la mise in un collegio. Mia sorella più piccola, che aveva un padre diverso perché era nata dal secondo matrimonio di mia madre, aveva solo 6 anni, e si addormentava piangendo la notte. La nostra famiglia era stata fatta a pezzi. Si trasferirono in una nuova casa, alla periferia della nostra piccola città, in una strada isolata e sporca.

    L’ultima volta che lo vidi, avevo 16 anni. Quando arrivai nella nuova casa per prendere le mie cose, uscì per incontrarmi. La barba era sparita. Aveva perso peso. Era calmo. Aveva un fucile in mano. Era puntato verso il basso, non in modo minaccioso. Era un momento definitivo. Stavo andando via di casa per sempre. C’era definitività nella presenza di un’arma. Se io avessi voluto usare un coltello, lui avrebbe sparato.

    Mia sorella era ancora in quella casa. Mia madre era ancora in quella casa.

    Tutti sapevano.

    Vicini, allenatori, cassieri del supermercato, insegnanti delle scuole elementari, medie e superiori, presidi, compagni di classe. I genitori di mia madre sapevano, mio padre sapeva.

    Tutti sapevano. Nessuno disse nulla.

    Ciò che permettiamo continua. E ciò che continua si intensifica.

    Non ho mai più visto il mio patrigno. Non c’è nessun momento di svolta, in cui l’ho affrontato per gli abusi. In cui gli ho chiesto, di punto in bianco, perché picchiavi mia madre? In cui gli ho detto, a bruciapelo, che il dolore che aveva provocato alle mie sorelle e a me poteva essere perdonato, ma non poteva sparire. Mia madre lo lasciò alcuni anni dopo. Lei morì alcuni anni dopo averlo lasciato.

    Il mio patrigno non uccise mia madre. Non mi uccise.

    Ma se avesse preso una pistola e ci avesse uccise tutte, nessuno sarebbe stato sorpreso. Era un uomo violento, avrebbero detto alle videocamere. Tutti lo sapevano.

    Ma nessuno se ne è curato. Perché in qualche modo crediamo di essere al sicuro da un uomo che picchia “solo” la moglie. Non siamo un membro di quella famiglia, per cui non ci riguarda per davvero.

    Se il mio patrigno avesse preso un’arma semiautomatica e avesse ucciso decine di sconosciuti in un luogo pubblico, nessuno ne sarebbe stato sorpreso. Era un uomo violento, avrebbero detto alle videocamere. Tutti lo sapevano.

    Ma adesso tutti sono coinvolti. Perché persone innocenti sono state uccise in una chiesa, in un nightclub, a un concerto o in un bar, e in una scuola elementare.

    La violenza domestica non vive più in una casa dell’isolato. La violenza domestica adesso vive in pubblico.

    Secondo Everytown for Gun Safety (un’ong statunitense contro la violenza e le armi, ndt), la maggior parte degli autori di una sparatoria di massa negli Stati Uniti ha ucciso un partner o un membro della famiglia durante il massacro, o ha dei precedenti di violenza domestica.

    Qualcuno lì fuori, proprio adesso, conosce il prossimo grande autore di una sparatoria di massa. Qualcuno lì fuori viene insultato, qualcuno gli urla contro, lo picchia.

    Qualcuno lì fuori vuole credere che gli dispiaccia, che sia cambiato e che amare significhi dare una seconda possibilità. Anche se questa seconda possibilità significa dargli un’altra pallottola perché ha mancato il bersaglio la prima volta.

    Qualcuno lì fuori, proprio adesso, ha bisogno del tuo aiuto.

    Una volta, forse, ti saresti sentito dispiaciuto per le tre bambine della casa violenta che falsificavano un assegno al supermercato. Una volta, forse, avresti sorriso dolcemente, distogliendo lo sguardo e non facendo nulla. Ora non più.

    I fatti dimostrano che la violenza domestica è un chiaro segnale di avvertimento che anche le persone al di fuori della famiglia potrebbero essere colpite in futuro.

    Gli uomini violenti non cadono dal cielo con le pistole e iniziano a sparare alle persone in luoghi pubblici. Ci sono segnali di pericolo.

    Le donne e i bambini maltrattati sono i canarini da miniera (i canarini venivano utilizzati come primitivo segnale di allarme nelle miniere per rilevare la presenza di gas tossici, che avrebbero ucciso i canarini prima ancora di avere effetto sui minatori, nrt).

    Inizia da qualche parte. Inizia in casa.

    Nessuno sarebbe stato sorpreso se io fossi morta.

    “And when one of us is gone

    And one of us is left to carry on

    Then remembering will have to do

    Our memories alone will get us through

    Think about the days of me and you

    Of you and me against the world

    I love you, Mommy

    I love you, baby…”

    La testimonianza di Katherine Fugate è stata pubblicata originariamente su Medium e tradotta su TPI. L’autrice l’ha pubblicata dopo la strage commessa in Texas, quando un uomo ha aperto il fuoco contro i fedeli della chiesa battista di Sutherland Springs, uccidendo almeno 26 persone e ferendone 20.

    L’autore della strage, il 26enne Devin Patrick Kelley, ha attaccato la chiesa in cui si recava talvolta la suocera, che non era presente il giorno dell’attacco, il 5 novembre scorso. In passato aveva inviato alla donna messaggi contenenti minacce. Nel 2012 Kelley, che si era arruolato nell’Aeronautica, era stato condannato da una corte marziale per abusi domestici nei confronti della moglie e del figliastro.

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