All’aeroporto di Adana un bambino dorme avvolto da una coperta gialla. Sopra la sua testa la scritta “Partenze”. Accovacciato accanto a lui c’è Ibrahim, suo padre, che fuma ormai quello che resta del filtro di una sigaretta. Non conosce l’inglese, per comunicare usa Google traduttore: «La nostra casa non c’è più, sono rimasto solo con il mio bambino di 4 anni, stiamo aspettando il volo per Istanbul, per un periodo verremo ospitati da mio cugino. Non so cosa faremo dopo. Qui non è rimasto nulla». Oggi l’aeroporto di Adana è diventato il centro logistico delle operazioni di ricerca e soccorso. Qui il terremoto di magnitudo 7.9 che ha colpito il territorio turco-siriano il 6 febbraio scorso ha causato “solo” 400 vittime e il crollo di 13 palazzi.
I “fortunati”
Nel quartiere di Güzelyali un grattacielo di tredici piani è completamente collassato. Per terra restano solo vetri e polvere. I soccorritori dell’Afad (la Protezione civile turca), giunti da Istanbul e da tutte le province del Paese, scavano ancora, anche a mani nude, dopo giorni, tra le macerie, nella speranza di trovare qualcuno ancora vivo.
Ai piedi delle macerie ci sono ancora molte famiglie che aspettano di ritrovare un familiare o un amico o con il bisogno di restare lì, a vegliare sulla propria casa, ormai distrutta.
La maggior parte però si rifugia nelle tende allestite dall’Afad e condivide con altri sfollati il cibo fornito dai volontari nel mercato del distretto di Cukurova. È qui che incontro Sevgi, ha 45 anni, fa il taxista e la sua è una delle tredici case distrutte dal terremoto.
«Quando ci sono state le prime scosse ero a casa con le mie due bambine, abitavamo al secondo piano, quando ho sentito le prime scosse le ho praticamente trascinate via, siamo scappati in strada, ho visto casa nostra sbriciolarsi su se stessa, è stato orribile. Mia moglie non era in casa in quel momento. Mio cugino, sua moglie e i bambini sono invece morti. Noi siamo stati fortunati», racconta Sevgi scaldandosi mani attorno a un piccolo falò improvvisato. «Perché è successo tutto questo disastro qui? La colpa è di chi ha costruito queste case! Dovevano essere a norma, e invece non lo erano!».
Accanto a lui c’è una grande tenda blu, una sorta di asilo, dove i bambini possono giocare, leggere e trovare un po’ di normalità. Bahar, la figlia più piccola di Sevgi gioca insieme ad altri bambini. Prende un libro tra le mani e lo porge al padre. «Oggi c’è il sole», dice lui, e aggiunge: «Stamattina ho bevuto un caffè e ho fatto quattro chiacchiere con i miei fratelli e amici, mi sono divertito e mi sento in colpa per questo».
A nord-ovest, al pronto soccorso del City Hospital di Adana i corridoi sono gremiti di mamme e papà che vagano disperati con le foto dei propri bambini dispersi e che cercano di trovarli ancora vivi. Damla ha 25 anni, i capelli legati con un fermaglio e un vestito a fiori blu scuro, chiede che qualcuno la aiuti, non trova più il suo bambino. Appena fuori incontro Evrim, ha trent’anni, incinta, viveva col marito in uno dei palazzi crollati. Ha un sacchetto con sé: dentro c’è un vestito e qualche libro recuperato dopo il crollo. «Questo è quello che mi è rimasto, ho perso tutto, mio marito è morto e con lui tutto il mio futuro», ci racconta e aggiunge: «Alcuni amici dormono in auto, ci diamo i turni perché io non ho la macchina, non ho mai preso la patente. Qui nessuno vuole tornare a casa, ci sono molte abitazioni che non sono crollate ma non sono agibili, non ci fidiamo, abbiamo paura». Evrim mi porge qualcosa, china il viso: «Ho solo le chiavi di casa, solo le chiavi di casa», ripete come una dolente cantilena.
Città fantasma
Per assurdo Adana è ancora “un’isola felice” rispetto al resto della provincia. A Gaziantep (epicentro del sisma), città del sud est della Turchia a una settantina di chilometri dal confine siriano, e più a sud nelle province di Kahramanmaraş, Adıyaman e Hatay, il terremoto ha provocato una vera ecatombe e i soccorsi si sono mossi con molto ritardo. Queste ormai sono città fantasma.
Ad Hatay, epicentro del terremoto a sud ovest, non c’è più niente. È difficile immaginarlo. Ma quando la si incontra resta ben impressa nella mente. Si raggiunge in macchina, tra le strade impervie e a tratti distrutte, dopo ore e ore di code e deviazioni. Per dieci chilometri è una sequenza ininterrotta di palazzi sbriciolati. Ci sono più di tremila morti. Non c’è più nulla, non ci sono più le case, non ci sono più le scuole, non c’è la caserma dell’esercito, non c’è più l’ospedale. Non esiste più. Però ci sono i morti, negli angoli di quello che rimane delle strade, o ai bordi delle macerie, dentro coperte o sacchi neri. E ci sono anche centinaia e centinaia di sfollati, donne, uomini e bambini sopravvissuti che aspettano ancora di trovare un familiare o un amico vivo dalle infinite macerie. Che si scaldano, ai piedi dei resti dei palazzi ormai sbriciolati, con una bevanda calda tra le mani offerta dai soccorritori.
Nuray ha 75 anni, tiene in braccio la sua nipotina tra la polvere bianca dei detriti, sotto i resti di un palazzo di 17 piani, il suo, che è completamente crollato come è successo a un altro di 14 piani, qualche chilometro più in là. Non conosce l’inglese, sorride, chiude gli occhi, ringrazia Dio di essere viva.
Qui ogni struttura diventa rifugio. Anche le più pericolanti. Ci si accampano le famiglie, che a turno riposano, si scaldano, dormono qualche ora. Le condizioni igieniche sono a dir poco angoscianti. Ci si tappa naso e bocca prima di entrare a fare pipì. C’è chi ormai inizia a farla ai bordi delle strade.
Ecatombe infinita
Al momento in cui scriviamo (il 13 febbraio, ndr), secondo le ultime stime, il bilancio del terremoto che il 6 febbraio scorso ha devastato il sud della Turchia e la Siria nord-occidentale ha raggiunto almeno 40.943 morti: è quanto emerge dopo l’aggiornamento di questa mattina del numero delle vittime in Turchia, arrivate ad almeno 31.643. A questi va aggiunto il bilancio di circa 9.300 vittime in Siria (Paese già martoriato dalla guerra civile, che si trova oggi a dover fronteggiare un ulteriore dramma) reso noto ieri dal responsabile regionale emergenze dell’Oms, Rick Brennan. Il funzionario, citato da Sky News, ha detto che nel Paese circa 4.800 persone sono morte nelle zone controllate dal governo e altre 4.500 sono decedute in quelle in mano ai ribelli. Nonostante sia passata una settimana ogni giorno i soccorritori trovano persone ancora vive sotto le macerie. Si fa silenzio, si parla a voce molto bassa per aiutare i soccorritori, e si attende per vedere se si riescono a trovare segni di vita da sotto le macerie.
Nel distretto di Nizip, una ragazzina di cui non è stata resa nota l’età è stata estratta dalle macerie 146 ore dopo il terremoto. Sempre nella provincia di Hatay, nel distretto di Antakya, un uomo di 35 anni è stato invece salvato da squadre di soccorso turche e rumene dopo 149 ore.
Intanto l’Onu ha dichiarato che sono almeno 870mila le persone con urgente bisogno di cibo nei due Paesi dopo il terremoto, che ha provocato fino a 5,3 milioni di senzatetto solo in Siria. Mentre gli sforzi di salvataggio entrano nel sesto giorno, il responsabile degli aiuti delle Nazioni Unite, Martin Griffiths, ha affermato che i terremoti che hanno scosso la Siria e la Turchia all’inizio di questa settimana sono stati il peggior evento degli ultimi 100 anni ad aver avuto un impatto sulla regione. Parlando con i giornalisti a Kahramanmaraş, proprio vicino all’epicentro del terremoto, ha chiesto di trasmettere il suo disperato appello per ulteriori aiuti in favore dei sopravvissuti. La polizia turca intanto ha arrestato 12 persone coinvolte nella costruzione degli edifici crollati nelle province sud-orientali di Gaziantep e Şanlıurfa a seguito dell’enorme sisma che ha colpito la Turchia.
Il quadro della catastrofe causata dal terremoto del 6 febbraio non è ancora completo. Sono moltissimi ancora i luoghi colpiti e distrutti, dove regna soltanto la morte e la disperazione.
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