Dopo cinque giorni di operazioni militari in Siria, l’esercito turco ha ottenuto il controllo di alcune aree che fino a poco tempo fa erano in mano all’Isis, ma ha colpito anche i miliziani curdi dell’YPG, alleati degli Stati Uniti proprio nella guerra contro il sedicente Stato islamico.
L’obiettivo dell’operazione, chiamata Scudo dell’Eufrate, dal nome del fiume che scorre nell’area, come ha dichiarato il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, è di annientare le organizzazioni terroristiche che combattono al confine con la Turchia.
— CHI COMBATTE IN SIRIA, fazione per fazione
Tra queste, però, non c’è solo l’Isis, ma anche le milizie dei curdi siriani del PYD, considerate da Ankara un’estensione del PKK, il partito dei lavoratori curdi da decenni in guerra con la Turchia.
Ankara vuole obbligare i curdi siriani a ritirarsi a est del fiume Eufrate, e impedirgli così di creare un corridoio per collegare le due aree controllate dai miliziani dell’YPG nel nord della Siria, a costo di complicare ulteriormente il conflitto siriano.
Perché, però, la Turchia ha deciso di intervenire solo adesso? I curdi del PYD per mesi hanno ampliato i loro confini e la risposta di Ankara era stata piuttosto limitata.
Probabilmente Erdogan aveva fiducia in una maggiore pressione dell’alleato americano per imporre ai curdi il rispetto di alcune linee rosse, come ad esempio non attraversare il corso dell’Eufrate, ma quando invece i curdi siriani sono riusciti a strappare all’Isis la città di Manbij e ad avanzare fino al confine con la Turchia, Erdogan si sarebbe convinto a un intervento più deciso.
Tuttavia, la campagna lanciata dalla Turchia potrebbe aprire un nuovo capitolo nella guerra civile siriana e nella cooperazione tra Ankara e Washington: è vero che gli obiettivi delle due nazioni non coincidono completamente, ma gli Stati Uniti potrebbero sfruttare a loro vantaggio la situazione ed avere come alleato il primo esercito regolare impegnato sul campo contro il sedicente Stato islamico.
Washington ha sempre esitato ad allearsi con i gruppi ribelli appoggiati dalla Turchia per il timore di esporsi troppo direttamente in un conflitto esclusivo contro il presidente Bashar al-Assad, ma in questo modo si è ritrovato come unico alleato regionale i curdi dell’YPG.
Invece, gli Stati Uniti avrebbero disperatamente bisogno di un alleato che possa ottenere risultati concreti nella lotta all’Isis, trattare con i cittadini arabi sospettosi nei confronti dei miliziani curdi e abbia lo status di partner internazionale, piuttosto che una miriade di milizie locali.
Finché la Turchia si è concentrata esclusivamente nella lotta frontale al regime di Assad, a costo di chiudere un occhio persino all’espansionismo del sedicente Stato islamico, questo non è stato possibile.
Ma in seguito al tentativo di colpo di stato, la Turchia ha cercato di rinforzare i legami con Washington e l’Unione europea, offrendo un impegno concreto nella lotta all’Isis, valutando la nuova politica più conveniente per raggiungere i suoi obiettivi.
In cambio gli Stati Uniti – come ha chiarito lo stesso segretario di Stato Joe Biden in visita in Turchia proprio il giorno dell’inizio dell’operazione Scudo dell’Eufrate – hanno fatto pressione sugli alleati curdi perché si ritirino a ovest del fiume Eufrate.
Se gli Stati Uniti riusciranno a mediare e mantenere la situazione sotto controllo, evitando un’escalation militare o scontri tra esercito regolare turco e miliziani curdi, come però è già accaduto, l’intervento turco potrebbe allo stesso tempo riequilibrare la distribuzione del potere tra arabi e curdi nel nord della Siria e colpire efficacemente l’Isis.
A sud di questa striscia di terra, però, le cose potrebbero complicarsi perché, allontanati dal confine, i gruppi di ribelli finirebbero o nel territorio controllato dai curdi del PYD o dal regime di Assad, con il rischio di una nuova escalation militare.
Infine, nel medio periodo sarà Ankara probabilmente a subire il contraccolpo maggiore perché la campagna contro i curdi in Siria infiammerà inevitabilmente le tensioni con i miliziani del PKK, che potrebbero tornare a colpire con degli attentati all’interno dei confini nazionali.