Nello scontro tra Donald Trump e Twitter, culminato nella decisione del presidente Usa di firmare un ordine esecutivo volto a ridurre le tutele legali dei social network per i contenuti pubblicati sulle loro piattaforme, è molto facile individuare chi ha torto, mentre è praticamente impossibile trovare qualcuno che abbia ragione. Ha torto il tycoon, nella misura in cui pretende di mettere a repentaglio il caposaldo su cui si regge l’esistenza stessa di Internet, la Section 230 del Communication Decency Act, creata nel 1996 per svincolare le piattaforme che si basano su contenuti generati dagli utenti da responsabilità legali per ciò che gli stessi utenti postano. Ma, in una certa misura, ha torto anche il social di Jack Dorsey, impelagatosi in una battaglia a “colpi di verità” che fa in realtà riemergere tutti gli abusi perpetrati nel corso degli anni da piattaforme come la sua.
Prima di tutto, i fatti: la vicenda nasce da una segnalazione fatta da Twitter su un cinguettio di Trump riferito al voto per posta in America, predisposto da alcuni stati a guida democratica a causa del Coronavirus. Per il presidente Usa, una votazione così condotta si presterebbe a probabili frodi e manomissioni: “Non c’è alcuna possibilità – ha twittato il tycoon – che le votazioni per posta non siano sostanzialmente una truffa. Le caselle postali verranno derubate, le schede elettorali saranno falsificate e persino stampate illegalmente e firmate in modo fraudolento”. Twitter ha segnalato questo post attraverso un alert che recita: “Verifica le informazioni riguardo il voto per posta”. Cliccando sul messaggio, si accede a una sezione in cui si spiega perché la frase di Trump sia priva di fondamento, con tanto di link ad articoli della Cnn e del Washington Post.
Trump, furioso, prima ha minacciato di firmare l’ordine esecutivo anti social media, poi è passato dalle parole ai fatti. Twitter, dal canto suo, venerdì 29 maggio ha segnalato un altro cinguettio del presidente Usa, stavolta riferito alle proteste scoppiate a Minneapolis dopo l’uccisione dell’afroamericano George Floyd da parte di un poliziotto. Per Trump i manifestanti sarebbero dei “teppisti”. Il post del presidente Usa si conclude con questa parole: “Quando iniziano i saccheggi, si inizia anche a sparare”. Per Twitter si tratta di “incitamento alla violenza”, ragione per cui il messaggio è stato oscurato, ma solo parzialmente poiché riconosciuto come contenuto di interesse pubblico.
La Section 230, ovvero la legge che Trump vuole cancellare
Va innanzitutto spiegato cos’è la Section 230 del Communication Decency Act che Trump vorrebbe mettere in discussione. Varata nel 1996, si tratta nella sostanza di una legge senza la quale i social network e tutte le piattaforme basate su contenuti prodotti dagli utenti cesserebbero di esistere. Se un hater pubblica un contenuto diffamatorio su Facebook, ad esempio, per effetto di questa legge sarà l’hater stesso a rispondere legalmente del suo comportamento, non la piattaforma che l’ha ospitato. Ciò avviene per la semplice e intuitiva ragione che sarebbe pressoché impossibile, per un social network, avere il controllo su tutti i contenuti che vi transitano quotidianamente.
Appena un anno prima, nel 1995, il Congresso Usa aveva varato una legge per contrastare in particolare la diffusione di materiale osceno sul web, rendendo i siti responsabili della pubblicazione di contenuti come quelli pornografici da parte degli utenti. Tuttavia, per il timore che il Communications Decency Act avrebbe rappresentato un freno alla diffusione di Internet, fu varato l’emendamento che esentava i “servizi informativi interattivi” da quel tipo di responsabilità. Il principio alla base della legge è tali servizi sono semplici piattaforme ospitanti, non editori.
La “perdita di verginità” della piattaforme social
Il problema, tuttavia, è che nel corso degli anni la presunta neutralità di questi “servizi informativi interattivi” (definizione in cui, dal momento della loro creazione, sono ovviamente rientrati anche i social network) ha finito per rivelarsi una pia illusione. Twitter e Facebook, tra gli altri, sono ormai a tutti gli effetti dei editori: le persone leggono le notizie su queste piattaforme, i giornali spartiscono con queste piattaforme parte dei loro ricavi pubblicitari. La nostra bacheca di Facebook o di Twitter è una mega home page in cui vediamo scorrere una messe di contenuti giornalistici, ordinati a seconda delle preferenze degli imperscrutabili algoritmi. Sono Facebook e Twitter a decidere quali notizie mi appariranno sul newsfeed, secondo meccanismi tutt’altro che neutrali affidati all’intelligenza artificiale.
Gli scandali scoppiati nel corso degli anni hanno poi progressivamente minato la credibilità di questi social media. La vicenda più nota è quella della società di consulenza britannica Cambridge Analytica, che si era impossessata dei dati di 87 miloni di utenti Facebook (all’insaputa degli stessi). Dati che venivano poi processati da un software al fine di prevedere e influenzare le scelte elettorali attraverso annunci politici personalizzati. La società era stata fondata da Steve Bannon, ex stratega di Donald Trump, e la manipolazione del pensiero degli utenti aveva influenzato principalmente proprio le elezioni presidenziali Usa del 2016 (vinte da Trump), oltre che il referendum sulla Brexit.
L’idea che il web dovesse godere di tutele speciali, assenti in altri settori, a quel punto non poteva che entrare in crisi. Non si trattava più infatti di salvaguardare il sogno della rete come espressione della libertà assoluta, bensì di tutelare gli utenti e la libertà stessa da un potere invisibile ma pervasivo. Lo stesso fondatore del world wide web, Tim Berners-Lee, ha denunciato a più riprese il sovvertimento dei principi su cui era nata la rivoluzione digitale. Gli stati e le istituzioni sovranazionali hanno iniziato a mettere Internet e i social network sempre più sotto torchio: l’Unione europea, ad esempio, negli ultimi anni ha avviato diverse indagini sull’abuso di posizione dominante di alcuni operatori del settore (come Amazon). Solo pochi anni prima, sempre in ossequio al principio secondo cui la libertà della rete era più sacra della legge, Obama aveva invece escluso che le piattaforme social potessero essere soggette a qualsivoglia legislazione antitrust. Poiché sono libere e gratuite, questa era l’idea di fondo, devono godere di tutele speciali, nessuno può toccarle né tantomeno censurarle.
Chi censura verrà censurato
La torsione sui concetti di libertà e censura hanno però contribuito a determinarla gli stessi social, con la progressiva cancellazione di una serie di contenuti che violano i loro standard, ma che spesso e volentieri tracimano nella censura gratuita. Contenuti monitorati talvolta da persone in carne e ossa, talvolta dagli algoritmi. Ed è qui che il banco è ulteriormente saltato. Se la censura di pagine di ultradestra come quelle del guru del complottismo Alex Jones possono risultare “pacifiche”, in altri casi le decisioni di Facebook, Twitter e degli altri social sono sembrate o l’effetto di clamorosi errori degli algoritmi (con pagine chiuse per sbaglio e poi riaperte) o di scelte arbitrarie dei social stessi (Facebook, va ricordato, ha da poco perso una causa con CasaPound, ed è stata costretta a ripristinare la pagina del movimento dopo averla rimossa).
Se Internet non è neutrale ma “politico”, perché opera delle scelte sulla base di principi arbitrari potenzialmente guidati da simpatie politiche, cade anche il bastione dell’inviolabilità di Internet stesso e della sua autonomia da stati e istituzioni sovranazionali. Ed è proprio in questo interstizio, legale e di principio, che si è infilato Donald Trump. Se Twitter vuole ergersi a “tribunale della verità” censurando a piacimento, è il ragionamento del presidente Usa, allora può essere esso stesso sottoposto a regolamentazione e censura.
Non è il primo tentativo che va in questa direzione. Come spiega questo articolo di Vox, nel 2019 la repubblicana Louie Gohmert voleva introdurre il B distored Algorithm Deterrence Act, secondo il quale qualsiasi servizio di social media che utilizzi algoritmi per moderare i contenuti senza il permesso dell’utente andrebbe considerato un editore e non una piattaforma, rimuovendo così le protezioni della Section 30. Nello stesso anno, il senatore repubblicano Josh Hawley propose l’Ending Support for Internet Censorship Act, secondo cui per ottenere la protezione della Section 230, i social network avrebbero dovuto dimostrare all’apposita commissione federale che le loro pratiche di moderazione dei contenuti erano politicamente neutre.
Nessuno di questi tentativi è andato in porto, così come è probabilmente destinato a infrangersi sui ricorsi ai tribunali l’ordine esecutivo di Trump (come riconosciuto da lui stesso). Resta il fatto che questa diatriba rappresenta un vero e proprio punto di svolta nella dialettica tra Internet e il potere politico, destinata a segnare il futuro stesso della rete. Trump è un bulletto che, per tornaconto politico, vorrebbe cancellare per decreto principi su cui viene costruita quotidianamente la nostra socialità in rete (e che, vista la portata del compito, evidentemente non ci riuscirà).
E tuttavia, sono stati Twitter, Facebook e gli altri giganti del settore ad aprirgli questo varco, abusando della libertà che era stata loro concessa, sfruttando in maniera indebita il credito di cui godeva la civiltà di Internet e il sogno di emancipazione dal potere che portava con sé. Che questo non sia uno scontro tra verginelle è piuttosto chiaro a tutti. Dorsey, Zuckerberg e compagnia scontano oggi tutti gli abusi e le negligenze del passato. È un redde rationem in cui però è difficile stabilire quale degli attori in campo goda al momento di maggiore credito nell’opinione pubblica. Rimetteranno ordine, si spera, i tribunali. Quelli federali però, non quelli della verità.
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