Il rinvio a giudizio di Donald Trump, con il suo corredo di arresto “pro forma”, impronte digitali e foto segnaletica, è un siluro che colpisce la campagna per la nomination repubblicana del magnate ex presidente sotto la linea di galleggiamento e la affonda. No, il rinvio a giudizio è una sferzata d’energia positiva: dà a Trump visibilità, se mai ne avesse bisogno, e un alone di persecuzione, che proprio gli mancava; gli porta soldi; e, soprattutto, mette in difficoltà i suoi rivali repubblicani, già dichiarati o potenziali, perché li costringe, per il momento, a schierarsi in sua difesa.
Basata su dati di fatto concreti o inoppugnabili; o politicamente motivata; o, forse, l’una e l’altra, l’inchiesta condotta dal procuratore generale di New York Alvin Bragg e conclusasi, in attesa del processo, con l’incriminazione dell’ex presidente ad opera di un Grand Jury, è sicuramente destinata a influenzare la campagna e forse l’esito di Usa 2024. Ma non è chiaro in che senso.
Partiti alla finestra
I democratici stanno a guardare: il presidente Joe Biden, che non ha ancora ufficialmente annunciato la propria ricandidatura, non commenta e dice di avere appreso dai media dell’incriminazione di Trump – è molto probabile che sia vero. Ad eccezione di Nancy Pelosi, ormai quasi una pensionata della politica, gli altri leader non esternano livore verso il magnate: «Che la giustizia faccia il suo corso», è la linea di condotta comune.
I repubblicani, invece, sono in fermento. Finora, il campo dei rivali di Trump per la nomination è limitato: c’è Nikki Haley, 51 anni, una sua ex sodale, già governatrice della South Carolina e rappresentante degli Usa all’Onu, origini indiane e grandi qualità, ma una popolarità da costruire; c’è l’imprenditore Vivek Ramaswamy, 37 anni, che cerca un po’ di visibilità; e c’è l’ex governatore dell’Arkansas Asa Hutchinson, 73 anni, sceso in campo il giorno dopo l’incriminazione di Trump. Hutchinson, un “non trumpiano”, ritiene il rinvio a giudizio dell’ex presidente un «momento triste per l’America», ma contestualmente l’invita a farsi da parte: «Ho sempre sostenuto che una persona non deve lasciare un incarico pubblico se è sotto inchiesta. Ma quando si arriva ad accuse penali, allora il ruolo diventa più importante dell’individuo».
Haley a parte, gli altri due sono comprimari dichiarati. Fermi ai box, ci sono per ora il governatore della Florida Ron DeSantis, 45 anni, uscito galvanizzato dal voto di midterm del novembre scorso, ma i cui consensi, inferiori a quelli di Trump fra gli elettori repubblicani, sono in calo al 26%, e Mike Pence, l’ex vice di Trump.
DeSantis è in imbarazzo: deve ora parlare e agire “pro Trump” e, ad esempio, esclude l’estradizione dell’ex presidente, che risiede a Mar-a-lago, in Florida, se ce ne fosse mai bisogno. Se si candida ora, fa la figura del «vile che uccide un uomo morto». Se aspetta troppo, il magnate magari resuscita – politicamente parlando –, usando il processo come una tribuna, e lui si deve mettere in scia. Pence, in rotta con il suo ex boss, giudica l’incriminazione «un cattivo servizio al Paese», ma non ha chances: i “trumpiani” lo bollano come un traditore, i “non trumpiani” lo stimano poco. Che si candidi o meno alla nomination, le sue mire sono più modeste: tornare a fare il governatore dell’Indiana o conquistare un seggio al Congresso.
La linea dei repubblicani è quella espressa dallo speaker della Camera Kevin McCarthy, “l’ercolino sempre-in-piedi” della nomenklatura del Partito: denunciare «un abuso di potere» di Alvin Bragg, il procuratore generale di New York, un democratico, che «fa il lavoro sporco per Biden» – la battuta è di Trump -; ma restare vaghi su quel che accadrà dopo, perché i sondaggi dicono che le accuse sono “credibili”, per il 70% dell’opinione pubblica, e destinano Trump all’emarginazione politica, se riconosciuto colpevole.
Ma è solo l’ultima scappatella
Resta, inoltre, da valutare l’effetto dell’incriminazione sulle numerose altre inchieste che investono l’ex presidente. Il timore iniziale era che il rinvio a giudizio per una vicenda relativamente minore potesse “eclissare” le indagini in corso su vicende politicamente più rilevanti e diminuire la fiducia dei cittadini nella neutralità della giustizia. Ma le notizie che arrivano paiono indicare il contrario: chi indaga su Trump prende coraggio dagli sviluppi a New York, dove è stato infranto un tabù, perché è la prima volta nella storia Usa che un ex presidente viene incriminato.
Erano 40 anni che Trump, imprenditore, impresario, showman, sciupafemmine, politico, dribblava la giustizia. Ad andare per prima a dama è quella forse meno pesante fra le inchieste che lo toccano. Le “scappatelle” del magnate, con pagamenti in nero annessi, appaiono, in fondo, poca cosa rispetto alle sue responsabilità nell’insurrezione del 6 gennaio 2021, quando migliaia e migliaia di facinorosi da lui sobillati diedero l’assalto al Campidoglio per indurre senatori e deputati a rovesciare l’esito delle presidenziali del 3 novembre 2020; o alle pressioni esercitate sui leader della Georgia perché gli «trovassero i voti» necessari per aggiudicarsi lo Stato; o ancora all’ostinato rifiuto di consegnare agli Archivi Nazionali centinaia di documenti classificati malamente custoditi nella dimora di Mar-a-lago; o, infine, alla spregiudicata gestione, finanziaria e fiscale, della Trump Organization, holding di famiglia.
Fonti di stampa segnalano accelerazioni delle indagini in Georgia, dove un Grand Jury è già stato riunito e ha ascoltato numerosi testimoni, e sui documenti sottratti: il Dipartimento della Giustizia e l’Fbi – ha scritto per primo il Washington Post – hanno prove che il magnate tentò di ostacolare l’inchiesta, dando istruzioni in merito ai suoi legali. La vicenda più pesante, quella sulla sommossa del 6 gennaio 2021, viaggia sotto traccia, ma le condanne dei facinorosi si susseguono.
Una straordinaria tribuna?
A carico del magnate nel procedimento di New York, una trentina di capi d’accusa per il pagamento in nero di 130 mila dollari alla pornostar Stormy Daniels, al secolo Stephanie Clifford, avvenuto nel 2016, in piena campagna elettorale. I soldi non erano destinati a compensare prestazioni sessuali, ma a comprare il silenzio di Stormy sui rapporti fra i due risalenti al 2010, quando Trump neppure pensava di scendere in politica, ma era già sposato con Melania, all’epoca incinta del loro unico figlio Barron.
L’inchiesta andava avanti da anni ed era basata sulla testimonianza dello “ufficiale pagatore”, cioè l’ex legale personale di Trump, Michael Cohen, che – dicono i difensori del magnate – agì di propria iniziativa. Davanti al Grand Jury riunito da Bragg, sono comparsi, fra gli altri, il legale paraninfo, nel frattempo già condannato e radiato dall’albo, e la Daniels, alias Clifford, che si dice «fiera» dell’esito dell’indagine (e, magari, della pubblicità ricavatane).
Anche Trump affronta il processo come una tribuna: ha raccolto oltre 4 milioni di dollari nelle 24 ore successive a quella che lui definisce «una persecuzione politica senza precedenti» nei confronti «del principale candidato presidenziale repubblicano». Oltre il 25% dei fondi proviene da donatori mai manifestatisi prima: nuova linfa per l’anziano magnate, che ha 77 anni.
Nell’aula del giudizio, troverà una vecchia conoscenza: il giudice Juan Manuel Merchan ha già presieduto il processo contro due società della Trump Organization e il loro responsabile finanziario, Allen Weisselberg – condannato –; e sta supervisionando il procedimento per frode e riciclaggio contro Steve Bannon, l’ex guru di Trump. «È un tribunale fantoccio – mette le mani avanti l’ex presidente – Il giudice mi odia! Questo non è un sistema legale, è Gestapo…». I figli sono con lui: Donald jr, che non brilla certo per senso della misura, parla di atto «che farebbe impallidire Mao e Stalin»; Ivanka, che non ha più rapporti di lavoro con il padre, si dice «addolorata per lui e per la Nazione». Ma, se le cose vanno male, lei potrebbe essere la Trump di riserva in corsa per la Casa Bianca.