«Non inizierò una guerra, fermerò le guerre». La promessa di Donald Trump nel suo primo discorso da presidente (ri)eletto degli Stati Uniti ha fatto sperare chi, da anni, attende una soluzione ai conflitti in corso alle porte dell’Europa, in primis in Ucraina, a Gaza e in Libano. «Sapete che siamo il partito del buonsenso: vogliamo avere dei confini, vogliamo sicurezza, un esercito forte e potente e idealmente non doverlo usare», ha detto The Donald proclamando la vittoria su Kamala Harris.
Le prime indicazioni di cosa possiamo aspettarci dalla “Pax Trumpiana” sono arrivate dalle congratulazioni dei leader internazionali per il suo ritorno alla Casa bianca. Tra i primi a esultare c’erano il premier Benjamin Netanyahu e i ministri dell’ultra-destra israeliana. Anche il presidente russo Vladimir Putin è sembrato piuttosto soddisfatto. Ben più fredde invece le congratulazioni del presidente francese Emmanuel Macron e del capo di Stato cinese Xi Jinping. Ma sono le sue stesse dichiarazioni, quelle dei suoi collaboratori e i piani per la transizione delle fondazioni vicine alla sua campagna elettorale a tracciare il percorso dei prossimi quattro anni della politica estera statunitense.
L’assegno in bianco a Bibi
Sin dal suo primo incarico, dal 2017 al 2021, Trump ha mantenuto un forte legame con Israele e con Netanyahu in particolare (che fu premier per 30 di quei 48 mesi), un rapporto interrotto soltanto dopo il mancato appoggio del capo del governo di Tel Aviv alle accuse di brogli contro Biden nel 2020.
Prima di allora, il magnate aveva riconosciuto Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico e trasferito l’ambasciata statunitense in città; tagliato i fondi all’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa), bandita lo scorso mese da Israele e dai Territori occupati; ritirato unilateralmente Washington dall’accordo sul nucleare con l’Iran, arrivando a ordinare di uccidere il comandante dei Pasdaran Qassem Soleimaini in un raid aereo a Baghdad; riconosciuto la sovranità israeliana sulle alture del Golan; e promosso gli Accordi di Abramo tra Tel Aviv ed Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco, senza concessioni ai palestinesi. Non sorprende quindi che la sua rielezione abbia fatto spellare le mani agli esponenti dell’estrema destra israeliana, anche grazie alle sue posizioni sulle guerre a Gaza e in Libano dopo gli attentati del 7 ottobre 2023.
Se l’amministrazione Biden non è andata oltre le dichiarazioni per evitare i massacri in Medio Oriente, continuando a rifornire di armi Tel Aviv, Trump ha dichiaratamente appoggiato le offensive di Netanyahu. Durante il loro ultimo incontro avvenuto a luglio in Florida, il magnate chiese infatti al premier di Israele di porre fine alla guerra «entro l’insediamento», previsto il 20 gennaio prossimo. «Gli ho detto di vincere rapidamente», ricordò in seguito il neopresidente eletto, perché «le uccisioni devono cessare». Ma in una telefonata avvenuta a ottobre Trump ha dato carta bianca a Bibi: «Fai quello che devi fare» a Gaza e nel Paese dei Cedri, dove in tredici mesi si sono superate rispettivamente le 43mila e le tremila vittime.
A riprova della vicinanza tra la visione trumpiana e dell’estrema destra israeliana, basta leggere i piani per la transizione elaborati da due fondazioni vicine alla campagna elettorale del magnate: Project 2025 e l’America First Policy Institute (Afpi). Tanto per dare un po’ di contesto: la sezione relativa alla politica estera del primo progetto è stata scritta da Kiron K. Skinner, un docente conservatore della Pepperdine University che ha prestato servizio nel dipartimento di Stato di Trump, mentre la direttrice esecutiva dal secondo istituto, Brooke Rollins, ha guidato il Consiglio di politica interna della Casa bianca durante il suo primo mandato e la presidente del Cda dell’Afpi, Linda McMahon, ha prima diretto l’Agenzia statunitense per le piccole imprese dal 2017 al 2019 e ora co-presiede il team responsabile della transizione di Trump.
Entrambi i progetti puntano a rivoluzionare non solo le politiche ma anche il personale e l’organizzazione del prossimo dipartimento di Stato, anche a costo di cancellare interi rami di questa amministrazione, come ad esempio l’ufficio Democrazia, Diritti Umani e Lavoro o l’ufficio Popolazione, Rifugiati e Migrazione, citato nel Project 2025. Tutti e due sono stati in prima linea nelle critiche mosse dall’attuale Casa bianca alla fornitura di armi da parte degli Usa a Israele durante la guerra con Hamas e rischiano ora di essere smantellati.
Il primo segnale del nuovo corso ha avuto subito effetti disastrosi sui colloqui per una tregua a Gaza. Il Qatar infatti si è ritirato dal ruolo di mediatore con il gruppo terroristico palestinese, un compito che l’Emirato sosteneva di aver accettato nello scorso decennio solo con il beneplacito degli Stati Uniti, una copertura che ora evidentemente, con il ritorno dell’alleato più stretto di Netanyahu alla Casa bianca, non sussiste più.
Cosa accadrà nei prossimi anni dipenderà però molto anche da chi guiderà la politica statunitense in Medio Oriente. Toccherà al senatore Marco Rubio diventare il prossimo segretario di Stato, che ha appoggiato le offensive israeliane a Gaza e in Libano e gli attacchi all’Iran. Ma ruoli minori potrebbero giocarli ancora il genero di Trump, Jared Kushner, il padre degli Accordi di Abramo, che da anni spinge per la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita senza alcuna concessione ai palestinesi e che negli scorsi mesi sottolineò il potenziale immobiliare delle «proprietà sul lungomare» della Striscia di Gaza.
Oppure il suo ex ambasciatore in Israele, David Friedman, il cui ultimo libro si intitola: “Un unico Stato ebraico: l’ultima, migliore speranza per risolvere il conflitto israelo-palestinese”, in cui esalta il diritto divino di Tel Aviv di annettere la Cisgiordania. Non fanno ben sperare per la pace le scelte di Steven Witkoff, un immobiliarista newyorkese, nominato nuovo inviato speciale degli Stati Uniti per il Medio Oriente e dell’ex governatore dell’Arkansas Mike Huckabee a rappresentante Usa nello Stato ebraico, l’uomo che in passato negò sia l’esistenza di un’identità palestinese che dell’occupazione israeliana dei Territori.
Tra i primi atti del 47esimo presidente, come annunciato dalla portavoce della sua campagna Karoline Leavitt, ci sarà inoltre l’imposizione di «sanzioni molto severe contro il regime iraniano», ripristinando quella “politica di massima pressione” già adottata durante il primo mandato per fermare lo sviluppo del programma atomico di Teheran, limitandone l’export petrolifero. Un approccio che aumenterà la tensione, evitando però una guerra aperta. L’obiettivo infatti, come detto da Trump, è tenere fuori l’America da nuove contese: «Dobbiamo mettere il nostro Paese al primo posto, almeno per un po’ di tempo». Vale, ovvio, soprattutto per l’Ucraina.
Ultimo tango a Kiev
Il conflitto, dichiarò il magnate in campagna elettorale, non sarebbe mai iniziato se dopo il 2020 fosse rimasto lui alla Casa bianca, attribuendo l’invasione russa a Biden e promettendo di «porre fine alla guerra in 24 ore», senza però mai spiegare come. «Stanno morendo: russi e ucraini», aveva detto nel maggio 2023. «Voglio che smettano di morire. E ci riuscirò in 24 ore». «Ho un piano molto impegnativo su come fermare l’Ucraina e la Russia», aveva rimarcato Trump, intervenendo al podcast di Lex Fridman. «Ma non posso rivelarvelo, altrimenti non potrei usarlo. Non avrebbe successo». Durante l’ultimo dibattito con Kamala Harris invece aveva promesso che, per fermare il conflitto avrebbe «fatto il possibile prima ancora di tornare presidente».
Qualche dettaglio in più però lo aveva fornito allo Shawn Ryan Show il suo vice JD Vance, secondo cui Trump avvierà dei negoziati con il Cremlino per «una soluzione pacifica», che si basi prima di tutto sulla «smilitarizzazione» dell’attuale linea del fronte. «Ecco come sarà in definitiva l’accordo», spiegò allora Vance. «L’Ucraina manterrà la sua sovranità e indipendenza; la Russia otterrà la garanzia della neutralità di Kiev, che non entrerà nella Nato né in altre istituzioni alleate».
Ad ogni modo, nel suo incontro del 27 settembre con il leader ucraino, il neopresidente Usa disse che era «troppo presto» per rivelare il suo piano. «Io ho le mie idee, il presidente Zelensky le sue», spiegò Trump, ricordando il «buon rapporto» con l’ex comico ma precisando: «Ho un buon rapporto anche con Putin». «Mi auguro che noi abbiamo rapporti migliori», rispose il presidente ucraino. «Ci vogliono due persone per ballare il tango e lo faremo», ribatté Trump.
Un ballo che in realtà è già cominciato. Al primo rendezvous telefonico tra il neopresidente Usa e Zelensky, ha infatti partecipato anche Elon Musk, fornitore all’Ucraina del sistema Starlink che sarebbe rimasto in contatto negli ultimi due anni con Vladimir Putin, a cui Trump avrebbe già chiesto per telefono di «evitare un’escalation» (un contatto poi smentito dal Cremlino e dal tycoon) mentre Mosca prepara a un’altra offensiva in Donbas e per riconquistare le zone occupate della regione di Kursk.
Lo spartito pare comunqu chiaro. Già alla Convention nazionale repubblicana di luglio, uno dei consiglieri più stretti di Trump e anche l’unico ad aver partecipato al suo incontro con Zelensky a settembre, nonché ex direttore ad interim della National Intelligence ed ex ambasciatore in Germania, Richard Grenell, da sempre scettico sull’approccio dell’amministrazione Biden nei confronti di Kiev, sottolineò: «Abbiamo dato molto (all’Ucraina, ndr) e voglio vedere un piano di pace». Intanto un altro ex consigliere della campagna elettorale di Trump, Bryan Lanza, ha ammesso che «la Crimea è persa» e che il presidente si aspetta da Zelensky «una visione realistica della pace». Il figlio di Trump invece, Don Jr., è stato ben più esplicito su Instagram, dove ha ricordato al leader ucraino che «mancano pochi giorni alla fine della paghetta».
Tutto deve cominciare comunque con un cessate il fuoco che, secondo il premier polacco Donald Tusk, possiamo aspettarci «nel prossimo futuro», perché «le decisioni sulla guerra in Ucraina non possono essere prese sopra le teste degli ucraini, ma neanche sopra le nostre». A noi europei infatti tocca mettere mano al portafogli, stavolta direzione Washington e non Kiev, a cui invece l’attuale amministrazione uscente della Casa bianca destinerà comunque i rimanenti sei miliardi di fondi stanziati prima delle elezioni.
Il conto al Vecchio continente
D’altronde lo ha confermato lo stesso ministro Guido Crosetto illustrando in Senato il Documento programmatico per la Difesa per il triennio 2024-2026 che prevede «un impegno finanziario complessivo (…) di circa 28,5 miliardi». Una spesa importante malgrado cui però, parola del ministro, «siamo ancora lontani dal famoso 2% del Pil entro il 2028, che ormai non è più un semplice obiettivo, ma un requisito minimo». Non è una novità: già durante il suo primo mandato Trump aveva letteralmente minacciato gli alleati che non erano disposti ad aumentare le spese militari.
Stavolta però c’è di mezzo una guerra per cui, secondo il Kiel Institute for the World Economy (Ifw), il Vecchio continente ha già stanziato 118,2 miliardi di euro di aiuti a Kiev, promettendone altri 74,1, a fronte degli 84,7 inviati e dei 15,43 promessi dagli Usa. Con il nuovo corso andrà, forse, tutto perduto e congelato. Ma l’aumento delle spese militari è certo, a vantaggio delle imprese di Washington e degli amici di Trump (e Meloni). D’altra parte, come ha spiegato Crosetto, non c’è alternativa: «Oggi sui satelliti in bassa quota per la comunicazione c’è solo Starlink. E il tema è che per raggiungere il livello di Starlink serve avere la capacità non solo di fare i satelliti ma anche di lanciarli che, a oggi, nessuno ha, non ai costi di Starlink». «Hai un privato che ha il monopolio mondiale», ha rimarcato il ministro riferendosi a Elon Musk. L’alternativa, ha aggiunto riferendosi all’europeo Iris2, «è mettere in funzione un sistema autonomo», che però «potrebbe arrivare tra 10 o 15 anni».
Ma in campagna elettorale, il presidente eletto ha promesso anche lo sviluppo di un nuovo scudo anti-missile, sul modello dell’israeliano Iron Dome, contro la minaccia di razzi a corto raggio che, a meno di un attacco a sorpresa da Messico, Caraibi o Canada, non pende certo sugli Usa quanto piuttosto sui Paesi dell’est Europa, che potrebbero essere interessati o indotti a comprarlo.
Insomma bisogna pagare il conto, anche perché sono in arrivo nuovi dazi, non solo quelli attesi contro la Cina. «Vi dirò una cosa, l’Unione europea sembra così carina, così adorabile, vero? Tutti i bei Paesini europei che si uniscono», aveva detto il presidente in campagna elettorale, rilanciando il “Trump reciprocal trade act”. «Non comprano le nostre auto. Non comprano i nostri prodotti agricoli. Vendono milioni e milioni di auto negli Stati Uniti. No, dovranno pagare un prezzo elevato». Maggiori costi confermati anche dall’ex stratega del tycoon Steve Bannon e che, secondo uno studio della London School of Economics (Lse), ricadranno anche sull’Italia, con un calo dello 0,01% del Pil. In questo la politica di Trump non è mai cambiata.
Un “mondo libero” senza leader
L’essenza del suo approccio, ispirato al do ut des (meglio definito come transazionalismo), è la stessa del primo mandato ma dovrà essere applicata in un contesto ben più caotico. «Posso dirvi che i Paesi di tutto il mondo, i leader, sono assolutamente a disagio con l’imprevedibilità di Donald Trump», spiegò a luglio il già citato Richard Grenell, che prima della nomina di Rubio era entrato persino nella rosa dei candidati alla segreteria di Stato. «E quando dico a disagio, intendo dire che non sanno esattamente cosa farà. E questo è positivo per noi».
Trump, aveva detto lo scorso mese a un evento della Nixon Foundation l’ex capo dello staff del Consiglio per la sicurezza nazionale Keith Kellogg, «prenderà il telefono e parlerà con (un leader straniero, ndr) e gli dirà: “Guarda, ti farò ricadere addosso tutto il peso degli Stati Uniti: economicamente, politicamente, diplomaticamente” e stabilirà una relazione con le singole personalità… quindi non passerà attraverso il dipartimento di Stato o il segretario della Difesa, l’Usaid o chiunque altro».
Un segnale del “personalismo” a cui sarà improntata la nuova amministrazione è arrivato dalla prima nomina del magnate, che ha scelto come capo dello staff alla Casa bianca la direttrice della sua campagna elettorale, Susie Wiles, definita dallo stesso Trump «la ragazza di ghiaccio», che conosce dal lontano 2015, quando assunse l’incarico di stratega per le primarie del miliardario in Florida. Una donna che, parola del tycoon, «lavora nell’ombra» e, pur non avendo esperienza a Washington, gode di uno stretto legame con il presidente, per cui cura i rapporti con i principali alleati come Robert F. Kennedy Jr. ed Elon Musk. Tutte le successive nomine infatti, da Witkoff a Stephen Miller, Elise Stefanik, Tom Homan e Kristi Noem, si sono ispirate al principio di lealtà al capo e dei buoni rapporti personali con il magnate.
Per quanto riguarda il ruolo degli Stati Uniti sulla scena mondiale invece, secondo la sua ex consigliera per la Russia Fiona Hill, il neopresidente non intende affatto incarnare il ruolo di guida del cosiddetto “mondo libero”. «Ci saranno meno Stati Uniti di prima» sulla scena mondiale, ha spiegato Hill in un recente podcast del Consiglio europeo per le relazioni estere. «Non può più esserci questa pericolosa dipendenza da ciò che accade a Washington».
L’aveva già detto in Senato ad aprile il vice di Trump, JD Vance: «Abbiamo costruito una politica estera di vessazioni, moralismi e prediche a Paesi che non vogliono avere niente a che fare con tutto questo. I cinesi hanno una politica estera di costruzione di strade e ponti e di alimentazione dei poveri: dovremmo perseguire una politica radicata negli interessi nazionali di questo Paese». Chissà se tra quelli che Trump e i suoi reputano tali ci sono anche la sicurezza e la prosperità dell’Europa (e dell’Italia) e la pace.
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