Giuseppe Conte non è che l’ultimo di una lunga serie di presidenti del Consiglio che si sono recati a Washington per rafforzare le loro credenziali internazionali, ottenere appoggio alle loro politiche e dare smalto alla loro immagine in patria.
Alcuni incontri tra i presidenti Usa e i nostri capi del governo hanno avuto un particolare significato. Non è necessario tornare troppo indietro, alla storica visita di Alcide De Gasperi nel gennaio 1947, preannuncio della rottura con le sinistre e dell’avvento del centrismo.
Anche nella “seconda repubblica” non sono mancati episodi significativi: l’incontro tra Romano Prodi, da poco insediatosi a Palazzo Chigi a capo di una coalizione che comprendeva per la prima volta due partiti ex-comunisti, e Bill Clinton (giugno 1996); quello tra Massimo D’Alema e Clinton del marzo 1999, pochi giorni prima dell’inizio dei bombardamenti contro la Serbia, a cui avrebbe partecipato anche l’Italia per decisione del governo presieduto dal leader ex-comunista; la visita del marzo 2006 di Silvio Berlusconi, a cui George W. Bush e il Congresso Usa, memori del suo appoggio nella disputa sulla guerra in Iraq, tributarono un’accoglienza trionfale (che non servì peraltro ad evitare al leader del centro-destra la sconfitta alle elezioni che si sarebbero svolte di lì a poco).
A capo di una compagine governativa ad alto tasso di populismo, su cui si nutrono non poche riserve in diverse capitali europee, Conte ha indubbiamente bisogno della sponda americana non meno dei suoi predecessori.
I premier italiani si sono anche premurati di valorizzare, quando possibile, l’affinità ideologica con gli inquilini della Casa Bianca. Basti pensare alla “terza via” di cui furono convinti propugnatori sia Clinton che D’Alema, o alla dichiarata fede liberista che accomunava Bush e Berlusconi.
Conte ha individuato il tratto distintivo che unisce il suo governo all’amministrazione Trump in una alquanto generica determinazione a cambiare lo status quo. Non una convergenza su principi e obiettivi definiti, ma, sembrerebbe di capire, un’analoga capacità di interpretare l’aspirazione al cambiamento dei rispettivi elettorati.
Non stupisce peraltro che Conte sia rimasto nel vago: il governo italiano non ha – o non ha ancora messo a punto – una posizione univoca su temi come il commercio, il cambiamento climatico e il futuro dell’integrazione europea che costituiscono le principali materie del contendere a livello transatlantico.
Su una questione centrale, la politica migratoria, Conte ha incassato gli elogi convinti di Trump. Come sottolineato da quest’ultimo, i due governi condividono, in particolare, l’obiettivo di rafforzare il controllo ai confini.
Va però notato che la Casa Bianca ha anche ridotto drasticamente il numero di rifugiati accolti in territorio americano, in pieno contrasto con il principio di solidarietà a cui ha continuato giustamente ad appellarsi il governo Conte.
L’Italia dovrebbe essere interessata allo sviluppo di meccanismi di solidarietà per la gestione dei flussi migratori a livello globale, come previsto dal Global Compact of Migration dell’Onu, ma è un fatto che le politiche di Trump vanno in tutt’altra direzione.
Trattandosi di un primo vertice fra i due leader, svoltosi ad appena due mesi dall’insediamento del nuovo governo italiano, non ci si potevano aspettare accordi bilaterali di grande respiro. Ha però destato un certo interesse l’annunciata creazione di quella che Conte ha definito una “cabina di regia” permanente italo-americano per l’area del Mediterraneo (nella sua accezione inclusiva, cioè estesa al Medioriente).
Non è chiaro se a questa iniziativa corrispondano già delle linee strategiche comuni, o si tratti per il momento soprattutto di un impegno a una sistematica consultazione reciproca. Anche in questo secondo caso, sarebbe da salutare come uno sviluppo positivo.
Tuttavia, è chiaro che un tandem, o “gemellaggio” per dirla con Conte, Usa-Italia può svolgere un ruolo efficace solo se si raccorda con le iniziative intraprese in contesti più ampi, a cominciare dall’Onu, e se mira a una collaborazione con gli altri principali attori internazionali.
Questo vale per tutti i principali scenari di crisi mediterranei e mediorientali. Né va dimenticato che l’Italia è tenuta primariamente a consultarsi e cooperare con i suoi partner dell’Ue nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune, di cui il Mediterraneo è una delle aree strategiche di intervento.
E ci sono dossier di grande importanza, come l’accordo nucleare con l’Iran, su cui Ue e Usa sono in aperto disaccordo. Si potrebbe obiettare – e si coglierebbe nel segno – che su altre questioni mediterranee l’Ue non è stata in grado di sviluppare una sua coerente linea di azione.
Non si può però ignorare che l’amministrazione Trump, come già in parte quella Obama, è tutt’altro che incline a rafforzare la sua azione nel Mediterraneo, tende anzi a disimpegnarsene. Facendo troppo affidamento su Washington, l’Italia rischia di ritrovarsi da sola, laddove, stimolando una più incisiva azione comune dell’Ue, potrebbe avvantaggiarsi delle capacità e risorse di cui quest’ultima dispone.
Una cartina di tornasole di queste problematiche è la gestione della crisi libica, nella quale sono in gioco vitali interessi italiani. Conte se ne è, in realtà, mostrato pienamente consapevole. A Trump il premier italiano ha chiesto di riconoscere e sostenere attivamente il ruolo speciale che l’Italia svolge nel paese nordafricano.
Si tratta della stessa richiesta che il suo predecessore, Paolo Gentiloni, aveva rivolto a Trump nell’aprile 2017, ricevendone una risposta tutt’altro che incoraggiante. Il presidente americano aveva messo in chiaro di non “vedere” un ruolo americano in Libia, essendo gli Usa già impegnati su troppi fronti.
In effetti, uno degli errori che può essere imputato al governo Gentiloni è di aver contato troppo – o troppo a lungo – sul sostegno americano in Libia. Il punto è che nulla fa pensare che la posizione di Trump sia cambiata.
Il rischio di incappare in una nuova delusione è quindi più che mai reale. L’Italia continua a sostenere il governo di al-Serraj, l’unico legittimo, in quanto riconosciuto dall’Onu, guarda con preoccupazione all’attivismo del presidente francese Emmanuel Macron, ed è a dir poco scettica sull’accordo, in verità assai fragile, raggiunto a Parigi nel maggio scorso, sotto la regia dell’Eliseo, per lo svolgimento di elezioni in Libia a dicembre di quest’anno.
La tesi italiana che un appuntamento elettorale a così breve scadenza, e senza aver prima definito il nuovo assetto costituzionale del paese, lungi da favorire il processo di riconciliazione nazionale, contribuirebbe a inasprire le divisioni esistenti, è più che fondata.
Ma ci si deve domandare se la via maestra per l’Italia non sia piuttosto quella di ricercare un’intesa con Parigi, possibilmente appoggiata da tutta l’Ue. Tenendo presente che altre potenze con un ruolo di primo piano, come la Russia e l’Egitto, continuano a sostenere il generale Khalifa Haftar, principale antagonista di al-Serraj.
Il gioco diplomatico sulla crisi libica è assai complesso e la carta americana difficilmente sarà decisiva. Potrà aiutarci solo se sapremo trovare prima un accordo con i nostri partner europei.