Una cosa non si può negare: Quentin Tarantino, benché giunto all’età in cui solitamente da “giovani promesse” si passa allo status di “venerati maestri”, non si è certo adagiato su uno stile più sobrio e rassicurante, ma continua a essere autore di un cinema assolutamente personale e libero da costrizioni di sorta.
Il problema è forse proprio che questa sua libertà di movimento, dovuta agli incassi strepitosi di Bastardi senza gloria (2009) e Django Unchained (2012), nonché al suo essere uno dei pochi registi-star attualmente in circolazione, fa sì che spesso il suo ego finisca per avere il sopravvento sull’intrattenimento, e gli vengano consentite scelte che in altri casi sarebbero state sicuramente frenate dai produttori.
In The Hateful Eight, ottavo film dell’autore losangelino in uscita in Italia il 4 febbraio, il potere del regista è evidente dalle tre ore di durata, dalla prestigiosa presenza di Ennio Morricone alle musiche, nonché dalla scelta azzardata e anacronistica di distribuire alcune copie del film su pellicola invece che in digitale, oltretutto nel “glorioso formato Ultra Panavision in 70mm”.
Questa libertà creativa si dimostra però mal sfruttata alla prova dei fatti, quando la prima ora e mezzo del film scorre lentissima senza che sullo schermo accada essenzialmente nulla di significativo. Più di una volta i personaggi fanno riferimento alla virtù della pazienza, come per avvertire lo spettatore, ma questo non è l’incipit di C’era una volta il West di Sergio Leone, in cui per alcuni magistrali minuti senza dialoghi tre pistoleri attendevano l’arrivo di un treno, e non è nemmeno l’altrettanto riuscito interrogatorio pieno di suspense che apriva Bastardi senza gloria.
In questo caso la prima parte del film si limita a presentare gli otto personaggi del titolo e a collocarli nell’ambiente in cui si svolgerà quasi tutta la pellicola, ma mancano sia una forza motrice che porti avanti la storia, sia quei dialoghi brillanti che avevano reso celebre la scrittura di Tarantino fin dall’esordio con Le iene (1992).
Quel film, per stessa ammissione del regista, ha molto in comune con quest’ultima fatica, con cui condivide gli spazi ristretti, l’impostazione teatrale e i conflitti letali che si creano tra i personaggi sulla scena. Che Tarantino avesse un’attrazione per uno stile affine a quello teatrale era già evidente in moltissime sue scene, dilatate e fitte di dialoghi, ma questa volta il regista ha esplicitamente dichiarato che l’intero film potrebbe essere una pièce, anche se il risultato sembra non premiare questo tentativo.
Qui la storia non vede protagonisti rapinatori in giacca e cravatta, ma un gruppo di individui poco raccomandabili riuniti in uno sperduto emporio del Wyoming, reso isolato da una tormenta di neve in un anno indeterminato poco dopo la fine della Guerra civile americana.
Il centro dell’azione riguarda il personaggio di Kurt Russell, in una delle sue prove migliori, nei panni di John “Il Boia” Ruth, cacciatore di taglie impegnato a consegnare alle autorità della città di Red Rock la fuorilegge Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh). I due viaggiano uniti da un paio di manette, affinché la criminale non si dia alla fuga e con lei sparisca la taglia da diecimila dollari sulla sua testa, e questa loro unione sembra un matrimonio tra psicopatici condito da sprazzi di violenza inaudita.
Nella locanda in cui sono costretti dalla neve a fermarsi prima di arrivare in città, hanno modo di interagire con il resto degli otto del titolo: tra gli altri, Samuel L. Jackson, astuto cacciatore di taglie e reduce della Guerra civile; Tim Roth, in una gustosissima parte che sembra ricalcare pari pari quella di Christoph Waltz in Django; Michael Madsen (indimenticato Mr. Blonde) nell’ormai sempiterno ruolo del duro taciturno.
In questo ambiente simile a una versione live action di Cluedo, la ferita ancora non sanata della guerra, il razzismo di alcuni personaggi nei confronti di Jackson e i sospetti reciproci scaturiti dalla presenza ingombrante della prigioniera fanno sì che presto lo scenario si trasformi in un giallo e poi in un horror.
A detta di un maestro del genere come Alfred Hitchcock, una situazione del genere poteva essere gestita in diversi modi, secondo la nota distinzione tra effetto-sorpresa e suspense: nel primo caso, se lo spettatore non sa di una bomba sotto il tavolo dei protagonisti del film, godrà di quindici secondi di choc; nel secondo, sapendo che la bomba scoppierà a breve, starà in allerta per quindici minuti.
Tarantino, rifacendosi da questo punto di vista a due classici del maestro come Psycho e Nodo alla gola, utilizza entrambe le tecniche per intrattenere il pubblico, e realizza una sorta di 8 donne e un mistero corretto da più abbondanti dosi di sangue: in alcuni casi dilatando a dismisura la tensione – con la sua voce fuori campo che addirittura fornisce dettagli invisibili per allarmare lo spettatore -, in altri casi stordendo con sprazzi inattesi di violenza.
Se quindi nella lunga introduzione il racconto è piatto e ripetitivo per assenza di eventi, nella seconda parte la ripetitività nasce paradossalmente da una successione di gesti sempre più estremi, sopra le righe e “tarantiniani” in tutta la loro ferocia fumettistica. Il gioco è divertente e coinvolge per i suoi continui capovolgimenti, ma la sostanza sembra mancare, lasciando campo libero a un divertissement a base di doppiogiochisti e arti mozzati.
Senza voler rivelare dettagli che rovinerebbero la visione, che proprio nei colpi di scena trova il suo maggior piacere, si può comunque dire che il film si lancia in un’escalation non necessaria di spari al ralenti in stile Matrix, bagni di sangue splatter e scene di depravazione sessuale gratuitamente esplicite, in cui prende forma un teatro dell’eccesso il cui unico scopo sembra quello di azzerare ogni sottigliezza.
Si finisce per rimpiangere quello stile già violentissimo ma più implicito che permeava Le iene e Pulp Fiction, in cui lo choc scaturiva più da ciò che si immaginava che da ciò che veniva effettivamente mostrato sullo schermo, e il tutto era condito da conversazioni molto più brillanti che in questo caso.
Qui di sicuro non si trova traccia dei dialoghi memorabili di un tempo su Like a Virgin o sui fast food europei, e anche rispetto al più recente Django Unchained sono poche le battute che restano in mente. Tarantino ha firmato probabilmente il suo film più sperimentale e più libero da vincoli commerciali, in cui il ritmo lento, l’ambientazione claustrofobica, il tono teatrale e il crescendo di violenza sono spinti al massimo grado, ma questo sembra soffocare la storia sotto un cumulo di eccessi esibiti.
È innegabile la bravura degli attori e la capacità di coinvolgere gli spettatori nel giallo da camera, nonché l’audacia nel proporre un’ambientazione così costrittiva, ma da Tarantino è lecito aspettarsi qualcosa di più. Qui il gioco esibizionista, una volta avviata la storia dopo lunghi minuti di noia, risulta sicuramente piacevole ma in fondo privo di spessore, risultando meno affine all’epica di Sergio Leone e più al piacevole ma leggero intrattenimento di Agatha Christie: otto piccoli indiani.
The Hateful Eight uscirà in Italia il 4 febbraio in più di seicento copie digitali, mentre già dal 29 gennaio è visibile in formato analogico 70mm al Teatro 5 Cinecittà a Roma, all’Arcadia Cinema di Melzo e al Cinema Lumière di Bologna.