The Economist su Draghi: “Non è l’uomo dei miracoli”
“Un uomo saggio e mite”, paragonabile a “un Cristo”. Così Vincenzo de Luca aveva definito Mario Draghi a inizio febbraio, nel momento di maggiore popolarità del nuovo governo presieduto dall’ex presidente della Banca centrale europea.
Quella di affidarsi a un uomo solo in grado di sollevare le sorti collettive è un’idea che sembra essere radicata da secoli nella penisola, fa notare il settimanale britannico The Economist, che questa settimana ha dedicato Charlemagne, la sua rubrica sugli affari europei, ai rischi di questa “sindrome del salvatore”. Una condizione che, con l’arrivo di Draghi alla presidenza del Consiglio, dall’Italia sembra aver anche contagiato l’Unione Europea.
Nel nostro paese, un’esaltazione simile aveva già accompagnato l’ascesa e preceduto la rovinosa caduta di alcuni dei predecessori di Draghi, a cui l’Economist riserva giudizi sferzanti. È il caso di Silvio Berlusconi, (“un cantante di navi da crociera diventato magnate dei media che ha promesso di porre fine alla politica di una volta ed è invece finito più volte in tribunale” e “un pagliaccio evasore con un debole per i festini”) e Matteo Renzi (“un giovane riformatore che ha promesso molto, ha realizzato poco ed è poi imploso”). Secondo Charlemagne, succedere a loro e a “un avvocato sconosciuto” come Giuseppe Conte può far sembrare “facile” essere statisti.
A differenza di chi ha già ricoperto il suo ruolo in passato, osserva l’Economist, questa volta l’entusiasmo si è diffuso anche nel resto d’Europa, che ha subito celebrato “l’approccio muscolare” del governo italiano nel bloccare le esportazioni di vaccini da parte di AstraZeneca, messo in mostra anche quando “Super Mario” ha definito il presidente turco Recep Tayyip Erdogan “un dittatore”, in risposta allo sgarbo subito dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen nel “Sofagate”.
Il tutto anche grazie a una voce più forte che l’Italia sembra aver finalmente ritrovato a livello europeo. “Ma questo non dovrebbe richiedere un miracolo”, afferma Charlemagne. “L’Italia è uno dei membri fondatori [dell’Unione], il terzo paese più popoloso e la terza economia più grande”, anche se prima di Draghi “non era sempre trattata così”. Secondo il settimanale, il frequente avvicendamento dei capi di governo italiano è diventato sempre più una debolezza con il graduale spostamento degli equilibri di potere all’interno dell’UE a favore del Consiglio europeo, in cui spesso in passato l’Italia è stata rappresentata da esponenti “sottoqualificati”.
Grazie a una congiuntura politica particolarmente favorevole, garantita dall’ascesa dei Verdi in Germania e la presenza di Emmanuel Macron alla presidenza in Francia, almeno fino alle elezioni dell’anno prossimo, Draghi e i suoi successori potrebbero riuscire a portare cambiamenti a lungo termine per l’Italia e magari creare l’impalcatura per una politica fiscale a livello europeo. In questo scenario, il piano di ripresa da oltre 200 miliardi, già definito “critico” negli scorsi giorni dal Financial Times per la credibilità degli sforzi per la ripresa dell’Unione Europea, diventerebbe secondo l’Economist una “camicia di forza deluxe” per i futuri governi, che non potranno uscire dal solco tracciato da Draghi senza che la commissione blocchi i fondi.
Non è la Bce
La fiducia senza precedenti, riconosciuta anche dai mercati, andrebbe però moderata: l’Economist sottolinea come il ruolo di Draghi è profondamente diverso da quello che lo ha reso celebre in passato per aver salvato l’Unione dalla crisi dell’eurozona. “Alla Bce uno può tirare una leva e il denaro esce. Nel governo italiano, uno può tirare una leva e scoprire che non è collegata a nulla”.
“Riformare l’Italia non è un lavoro veloce”, afferma l’Economist, secondo cui un cambiamento generalizzato è “impossibile” sotto Draghi. “Tutto quello che può fare è lasciare un progetto per gli altri. A quel punto, i dubbi sull’Italia torneranno a insinuarsi nel sistema”.
Il settimanale mette in guardia dalla possibilità che l’esaltazione di Draghi non finisca invece per offrire una sponda a chi è contrario a una maggiore integrazione europea. Da questo punto di vista, se Draghi avrà successo allora sarà stato possibile solo grazie alle capacità uniche di “Super Mario”, difficili da replicare nella politica italiana. Se invece fallirà, sarà un buon motivo per mettere un freno ai piani di un’unione più forte. Una delusione che rischia di diventare concreta per l’ostinazione a volersi affidare alle fortune di un uomo solo. “Il fatto che i colleghi leader dell’UE possano accettare veramente solo un tecnocrate come primo ministro italiano è un brutto precedente”.
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