Tutto quello che (non) sappiamo sulla terza dose del vaccino anti-Covid
Nei Paesi in cui la campagna vaccinale contro il Covid-19 è già molto avanzata, l’attenzione comincia a spostarsi sulla possibile somministrazione di una terza dose per prolungare l’immunità contro il virus e offrire una maggiore protezione contro le varianti emergenti.
Gli Stati Uniti hanno annunciato mercoledì 18 agosto che dal 20 settembre la terza dose dei vaccini di Pfizer/BioNTech e Moderna verrà offerta a tutti gli adulti che hanno completato il ciclo vaccinale da almeno 8 mesi. Il Regno Unito comincerà a somministrare oltre 30 milioni di richiami da settembre, inizialmente ai pazienti fragili, agli operatori sanitari e a chi ha più di 70 anni, e in seguito a tutti gli over 50.
Anche la Germania sta pianificando la somministrazione dei richiami da settembre per anziani e pazienti fragili, mentre in Francia la terza dose viene regolarmente raccomandata ai pazienti immunodepressi da aprile.
Eppure, secondo quanto dichiarato dall’Ema (l’Agenzia europea per i medicinali) in una nota pubblicata il 14 luglio, attualmente non ci sono dati sufficienti per stabilire se e quando sia necessario somministrare una terza dose del vaccino anti-Covid-19.
Nel frattempo, in Israele e in Russia la dose di richiamo viene già offerta ad alcuni cittadini: rispettivamente agli over 60 e a chi ha completato il ciclo di immunizzazione da più di sei mesi. Ma quali sono i dati a sostegno di queste scelte? Come funzionano i richiami, e ne abbiamo davvero bisogno?
Come funzionano i richiami?
La vaccinazione serve ad addestrare il sistema immunitario a contrastare un patogeno, e il richiamo rafforza questa risposta.
Già poche ore dopo la somministrazione del vaccino, si attivano i linfociti B e T: i primi producono anticorpi, i secondi si occupano della risposta cellulare al virus. Con il tempo, il numero degli anticorpi diminuisce, ma rimane un gruppo di linfociti B della memoria che, pur non producendo attivamente anticorpi, contengono istruzioni su come farlo, in caso in cui vengano a contatto con il virus in futuro.
Il richiamo del vaccino attiva queste cellule, che si moltiplicano e ricominciano a produrre anticorpi. Questo, insieme all’aumentare dei linfociti T, rafforza le nostre difese contro il virus. Anche quando il livello di anticorpi diminuisce nuovamente, nell’organismo rimane un numero maggiore di cellule B della memoria, il che garantisce una risposta immunitaria più veloce e più forte contro il virus in caso di futura esposizione.
Secondo i primi studi disponibili, quando somministrate a mesi di distanza dalla seconda dose, i richiami dei vaccini anti-Covid-19 provocano un aumento del numero di anticorpi contro il virus: una ricerca dell’Università di Oxford, attualmente in fase di pre-pubblicazione sulla rivista Lancet, ha riscontrato un aumento significativo nel livello di anticorpi e linfociti T in seguito alla terza dose del vaccino AstraZeneca, e Pfizer e Moderna hanno condiviso dati simili.
Il numero di anticorpi presente nei pazienti è uno dei parametri utilizzati per misurare la risposta immunitaria in seguito alla somministrazione del vaccino. Tuttavia non è ancora stato determinato quale sia il livello soglia di anticorpi che garantisce la protezione contro il virus: esistono delle stime, ma conoscere questo numero in modo preciso permetterebbe di stabilire con più sicurezza se e quando è necessario somministrare una nuova dose di vaccino.
Se ad esempio il livello di anticorpi in un individuo è considerato sufficiente a proteggere dal virus, la terza dose, per quanto innalzi ulteriormente questo numero, non sarebbe necessaria. Una ricerca di Oxford ha stimato questi livelli soglia, ma utilizzando i dati raccolti durante lo studio clinico del vaccino di AstraZeneca, e quindi la correlazione trovata potrebbe non essere valida per la variante delta, che non era ancora emersa all’epoca.
Nelle sperimentazioni cliniche dei vaccini anti-Covid-19, la principale misura dell’efficacia di un vaccino non si basa sulla risposta anticorpale, ma sul numero di partecipanti vaccinati che contrae il virus durante il periodo di osservazione, rispetto a chi ha ricevuto un placebo (come abbiamo spiegato qui).
Ma dati di questo tipo sull’efficacia dei richiami e delle terze dosi non sono ancora stati pubblicati: occorre più tempo affinché il numero di infezioni registrate sia sufficientemente alto per poter calcolare l’efficacia. Altri dati molto probabilmente emergeranno nei prossimi mesi.
Nel Regno Unito, ad esempio, è cominciato a maggio uno studio sui richiami che coinvolge quasi 3.000 persone, e pubblicherà i primi risultati a settembre. La peculiarità dello studio è che la terza dose somministrata ai pazienti potrà essere di un vaccino diverso da quello ricevuto precedentemente, e quindi oltre a studiare l’effetto del richiamo, la ricerca potrà anche essere utile per stimare l’efficacia della cosiddetta vaccinazione eterologa.
Quanto dura l’immunità dei vaccini anti-Covid-19?
Un fattore chiave per determinare se, e soprattutto quando, somministrare una dose di richiamo, è la durata dell’immunità offerta dalle prime due dosi (o unica dose) di vaccino.
Una ricerca della University College London con 605 partecipanti, ha rilevato che 10 settimane dopo la seconda dose dei vaccini di PfizerBioNTech e AstraZeneca il numero di anticorpi si riduceva di oltre il 50% e 80% rispettivamente. I ricercatori, tuttavia, hanno chiarito che una diminuzione degli anticorpi è normale, e che le implicazioni cliniche dei livelli osservati, in termini di immunità, non sono chiare (per le ragioni spiegate nella sezione precedente).
Guardando invece all’efficacia intesa come protezione contro l’infezione, diverse ricerche hanno evidenziato come questa rimanga molto elevata anche a mesi di distanza dalla somministrazione dell’ultima dose.
Uno studio di Pfizer, attualmente in fase di pre-pubblicazione, stima che l’efficacia del vaccino prodotto da questa casa farmaceutica sia scesa solo dal 96% all’84% dopo 6 mesi, mentre la protezione contro un’infezione grave dopo sei mesi era ancora altissima, al 97%. L’efficacia del vaccino di Moderna, secondo quanto dichiarato dalla compagnia, è rimasta praticamente invariata dopo lo stesso periodo di tempo, scendendo solo dal 94% al 93%.
Il ministero della Salute di Israele ha condiviso dati su vaccini e infezioni tra dicembre 2020 e luglio 2021 che sono stati molto commentati nelle scorse settimane, proprio a proposito della durata dell’immunità dei vaccini. Secondo le stime del ministero, l’efficienza del vaccino Pfizer/BioNTech contro l’infezione da Covid-19 (sintomatica e asintomatica) era oltre il 90% all’inizio della campagna vaccinale, ed è poi scesa progressivamente fino a circa il 40% a fine giugno.
Questa diminuzione, tuttavia, potrebbe essere causata dall’emergere della variante Delta (di cui parliamo di seguito), o da altre variabili non tenute in considerazione nell’analisi statistica, e non dalla progressiva perdita di efficacia dei vaccini. In più, è importante notare come, anche secondo questi dati, l’efficienza del vaccino contro l’ospedalizzazione e l’infezione grave sia rimasta superiore all’80% per tutte le persone vaccinate, indipendentemente dal mese di avvenuta immunizzazione.
A chi somministrare la terza dose?
Anche considerando i dati di Israele, dunque, la decisione di offrire o meno i richiami a tutta la popolazione potrebbe dipendere dall’obiettivo della campagna vaccinale dei vari Paesi: eliminare completamente la circolazione del virus, o proteggere i cittadini dalle forme gravi del virus, ed evitare il sovraffollamento degli ospedali.
Un’altra strategia è quella di somministrare le terze dosi solo ai pazienti più vulnerabili, cosa che infatti stanno già facendo diversi governi. Nei pazienti immunodepressi – come malati oncologici, persone in dialisi, riceventi di trapianti di organi o pazienti con una malattia autoimmune – spesso il normale ciclo vaccinale contro il Covid19 produce una bassa risposta del sistema immunitario, che con una dose di richiamo si potrebbe rafforzare.
Un recente studio sui pazienti che hanno ricevuto un trapianto di organi ha dimostrato che una dose aggiuntiva di vaccino aumenta la prevalenza di anticorpi dal 40% (dopo la seconda dose) al 60% (dopo la terza).
Il richiamo può aiutare a contrastare le varianti?
Un’altra ragione per la quale alcuni governi ed enti regolatori stanno valutando la somministrazione di una terza dose di richiamo è l’emergere di nuove varianti di Covid-19, contro le quali i vaccini offrono una protezione elevata, ma a volte minore rispetto al ceppo originale del virus.
Ci sono due modi in cui una dose di richiamo potrebbe rafforzare l’immunità contro le varianti: somministrando un’ulteriore dose di vaccino, come abbiamo visto, la risposta immunitaria contro il virus è generalmente rafforzata; oppure, i vaccini attuali potrebbero essere modificati in modo da offrire una protezione mirata contro una variante specifica.
Per inquadrare il problema delle varianti in relazione ai vaccini, dobbiamo considerare l’efficacia degli stessi contro queste mutazioni del virus, concentriamoci sulla variante Delta, che è adesso dominante in Europa (in Italia rappresenta il 94,8% dei casi di Covid-19), così come negli Stati Uniti e non solo.
Esistono ormai numerosi studi che si basano sui dati “reali”, ovvero raccolti nei vari Paesi nel corso della campagna vaccinale invece che durante la sperimentazione clinica: per questo vediamo riportate stime diverse tra loro, sia sui quotidiani che sulle riviste scientifiche.
In generale, i risultati riportano un’efficacia tra il 60% e il 90% contro la variante Delta per i vaccini più comuni (anche se la maggior parte di questi studi si riferisce ai vaccini Pfizer/BioNTech e AstraZeneca). Una protezione quindi elevata contro l’infezione (considerando che l’efficacia del vaccino influenzale è tra il 40% e il 60%), e ancora di più contro il rischio di ospedalizzazione e decesso.
Pfizer/BioNTech ha condiviso online nuovi dati secondo cui una terza dose del vaccino aumenterebbe la protezione contro la variante Delta rispetto alle sole due dosi. Il livello di anticorpi contro la variante era aumentato di cinque volte tra gli adulti fino ai 55 anni, e di undici volte negli adulti tra i 65 e gli 85 anni.
Anche alla luce di questi risultati, la compagnia suggerisce la somministrazione del richiamo tra i 6 e i 12 mesi dopo la seconda dose. Ma come abbiamo detto sopra, non è chiaro se questo aumento sia necessario per garantire la protezione contro il virus. A seconda di quanto è significativa la mutazione del virus nella variante, alterare il vaccino originario potrebbe essere opportuno o meno.
Nel caso della variante Delta del Covid-19, non sembra che le compagnie farmaceutiche stiano sviluppando un vaccino mirato contro di essa. Özlem Türeci, co-fondatrice e capo della divisione di ricerca medica di BioNTech, ha dichiarato a inizio agosto che al momento la compagnia non stava progettando un adattamento del vaccino per nessuna variante, anche se non ha escluso che possa diventare necessario farlo in seguito per nuove mutazioni.
I ricercatori di Moderna invece stanno testando l’efficacia di una versione del vaccino studiata per meglio contrastare la variante Beta, con risultati preliminari positivi.
La moratoria Oms
L’attuale distribuzione dei vaccini è fortemente diseguale: basti pensare che nei 52 Paesi più poveri è stato somministrato il 2,6% delle vaccinazioni totali, ma ci vive oltre il 20% della popolazione mondiale. La somministrazione massiccia dei richiami nei Paesi ad alto reddito rischia di rallentare ulteriormente la distribuzione delle dosi alle popolazioni che finora ne hanno avuto un accesso limitato e che hanno bisogno vaccinare molte più persone per contenere il virus. Per questo, il 4 agosto l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha richiesto una moratoria sui richiami almeno fino alla fine di settembre “per garantire che almeno il 10% della popolazione in ogni Paese sia vaccinato”.
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