L’entusiasmo in Occidente per i movimenti di opposizione a Pechino, Hong Kong e Taiwan, il cui successo anche elettorale ha guadagnato l’appoggio dell’opinione pubblica internazionale ai manifestanti, celebra la fine, almeno temporanea, del sogno “democratico” nel Paese asiatico.
Se la rielezione di Tsai Ing-wen a presidente di Taiwan e prima ancora gli oltre sei mesi di proteste e la vittoria dei candidati di opposizione alle elezioni distrettuali a Hong Kong mettono infatti in dubbio le capacità di attrazione di Pechino di altre realtà politiche, persino quelle abitate da popolazioni cinesi, la reazione della periferia dimostra il fallimento del processo di “contagio” sperato dall’Occidente al momento della cessione delle ex colonie britanniche e portoghesi alla Cina.
Oltre 20 anni fa, soprattutto le diplomazie europee e statunitensi speravano che una Cina a più velocità e contaminata da istituzioni di stampo rappresentativo e liberale, pur limitate a livello geografico, potesse essere influenzata dallo spirito di Hong Kong, che si sarebbe diffuso gradualmente tra i cinesi come un virus o meglio come un cavallo di Troia.
La stessa Pechino vedeva in quello che diventerà poi il principio “un Paese, due sistemi” un’opportunità non solo per riunire alla madrepatria territori indubitabilmente cinesi, ma anche per diffondere progressivamente il proprio modello politico in sostituzione di regimi considerati instabili.
Il risultato dei primi due decenni di unificazione delle ex colonie alla madrepatria e di un lungo periodo di distensione dei rapporti con Taipei è andato invece in una direzione completamente diversa, verso un progressivo ma diversificato allontanamento di queste realtà da Pechino, che allo stesso tempo non sembra essere stata affatto “contagiata” dai sistemi in vigore a Macao e Hong Kong.
La ragione della mancata diffusione di questo virus, nonostante l’entrata in Cina del cavallo di Troia delle ex colonie, risiede forse nel minor ruolo delle due città, in particolare di Hong Kong, nell’immaginario ma soprattutto nella vita economica del Paese asiatico.
Pur mantenendo la propria natura di importante snodo commerciale e finanziario internazionale, sin dalla riunificazione, l’ex colonia britannica ha perso molta della propria influenza sull’economia cinese, più di quanto non sia successo a Macao. Secondo i dati della Banca mondiale, a parità di potere d’acquisto, il peso in termini di Prodotto interno lordo di Hong Kong sull’economia cinese è crollato dal 5,9 per cento del 1997 a poco più dell’1,89 per cento del 2018. Nello stesso periodo, il rapporto tra il Pil dell’ex colonia portoghese e quello della madrepatria, a parità di potere d’acquisto, è sceso dallo 0,5 per cento del 1997 allo 0,31 per cento del 2018, restando sostanzialmente stabile e poco rilevante dalla riunificazione, avvenuta nel 1999.
A fronte del calo del ruolo di Hong Kong nell’economia cinese, il Paese asiatico ha invece registrato l’ascesa di vari centri commerciali e finanziari sul continente, come Shenzhen. In termini assoluti, questa moderna metropoli che collega l’ex colonia britannica al resto del territorio cinese ha accresciuto negli ultimi 20 anni il proprio peso nell’economia del Paese, arrivando ormai ad eguagliare se non a superare quello di Hong Kong.
Se nel 1997 Pechino aveva bisogno dell’ex colonia britannica come fondamentale snodo portuale e aeronautico e hub finanziario, oggi gli scali marittimi di Shanghai, Ningbo e Shenzhen risultano altrettanto attivi dal punto di vista commerciale, mentre le borse di Shanghai e Shenzhen attirano sempre nuovi investimenti esteri. Inoltre, dopo la riunificazione, gli scambi tra l’ex colonia britannica e la Cina sono passati da poco più di un terzo a oltre la metà del totale delle importazioni e delle esportazioni.
Questo ha trasformato sempre più la città da metropoli internazionale in Asia a porta del mondo della Cina. Il suo status di porto franco, esente da dazi doganali, ha così permesso a Hong Kong di avvantaggiarsi di questa nuova posizione, ma ha reso l’economia dell’ex colonia sempre più dipendente dalla madrepatria, incoraggiando Pechino a incrementare il proprio ruolo politico in città, scatenando la reazione dei movimenti per i diritti nel 2014 e nel 2019.
La risposta di Pechino a queste manifestazioni di dissenso, anche a fronte dell’ascesa di sentimenti indipendentisti a Taiwan, è sempre stata del bastone e della carota, alternando la repressione in piazza nell’ex colonia britannica e la minaccia militare contro le autorità dell’isola a strumenti economici come sussidi e agevolazioni degli scambi commerciali. Se la Cina sembra per ora infatti immune al fascino dei modelli politici di stampo occidentale in vigore a Hong Kong e Taipei, il suo mezzo di persuasione e spesso dissuasione preferito resta l’economia, un campo in cui Pechino può far valere tutta la propria superiorità senza timore di reazioni.
Sebbene meno dipendente dall’economia della Cina rispetto all’ex colonia britannica, anche Taiwan rinuncerà difficilmente ai rapporti con Pechino, responsabile ogni anno del 28,8 per cento delle importazioni dall’isola. In 20 anni, gli scambi attraverso lo stretto sono inoltre passati dai poco più di 5,02 miliardi di dollari del 1998 agli oltre 150,05 miliardi di dollari del 2018, anche grazie a una serie di accordi economici che promuovono sempre più il commercio e il turismo bilaterale.
Eppure, al crescere degli scambi commerciali, finanziari e culturali, Pechino non sembra essere rimasta influenzata dai modelli dei propri vicini, anzi. In un discorso pronunciato a ottobre scorso per i 70 anni della Repubblica popolare, il presidente Xi Jinping ha promesso di raggiungere entro il 2049 il “grande rinnovamento della nazione”, un’espressione che cela le ambizioni di Pechino di superare gli Stati Uniti come leader a livello economico nel mondo, la riunificazione con Taiwan e la fine del principio “un Paese, due sistemi” a Hong Kong e Macao.
Le massime autorità cinesi sembrano convinte che questo obiettivo non possa che esser raggiunto attraverso un irrigidimento delle politiche autoritarie. Secondo un libro bianco pubblicato a settembre dal governo cinese in vista del 70esimo anniversario della fondazione dello Stato, “la governance della Cina è straordinariamente difficile, a causa della vastità del territorio e delle complicate condizioni del Paese”. “Senza una leadership centralizzata, unificata e ferma, la Cina sarebbe andata verso la secessione e la disintegrazione”, si legge nel documento, intitolato “La Cina e il mondo in una nuova era”, non certo all’insegna della democrazia.
Soltanto il tempo potrà dire se questa politica si tradurrà in una forza centrifuga o centripeta, capace di consolidare o distruggere il potere di Pechino. Tuttavia, almeno nel breve periodo, questo continuerà comunque a ostacolare lo sviluppo di movimenti democratici in Cina continentale, alimentando il sistema repressivo in tutte le regioni periferiche del Paese, come il Tibet, lo Xinjiang e Hong Kong.