Ci sono momenti in cui l’uomo raggiunge il proprio limite, oltre il quale c’è solo la morte, e per non superarlo fa a cose cui mai, nella propria vita, avrebbe pensato di arrivare. Si tratta esattamente di ciò che è successo ai passeggeri del volo della Fuerza Aerea Uruguayana che da Montevideo avrebbe dovuto raggiungere Santiago del Cile.
Il 12 ottobre 1972 quel volo partì dall’aeroporto Carrasco di Montevideo. A bordo c’era l’intera squadra di rugby dell’Old Christians Club, che doveva recarsi a Santiago per una partita contro una squadra locale, cui si era aggiunta Graciela Mariani, una donna diretta verso la capitale cilena per il matrimonio della figlia. Il volo era gestito dall’aeronautica militare uruguaiana, che per arrotondare gli introiti aveva iniziato a operare voli charter.
Tuttavia, quel 12 ottobre c’era maltempo. La nebbia era fitta, non esattamente il clima ideale per oltrepassare la Cordigliera delle Ande, tanto più a bordo di un Fokker F27 da appena 45 posti: per questa ragione, il comandante preferì atterrare all’aeroporto di Mendoza, città argentina immediatamente a est delle Ande, per ripartire la mattina seguente.
Il giorno successivo, il 13 ottobre, le condizioni non erano migliorate. Tuttavia, l’aereo uruguaiano si trovava in un paese, l’Argentina, in cui per il regolamento vigente i velivoli stranieri non potevano stazionare oltre 24 ore, e così fu costretto a ripartire, azzardando l’attraversamento delle Ande con un clima non favorevole.
Intorno alle ore 15:08 l’aereo si trovava sopra le Ande, quando virò verso ovest inserendosi in una nuova rotta. Dopo pochi minuti, avvisò la torre di controllo di Santiago, dicendo di trovarsi presso la città di Curicò, e chiedendo così l’autorizzazione per la discesa.
Si trattò in realtà di un errore, dal momento che non solo l’aereo non si trovava sopra quella città, ma non ci sarebbe arrivato neanche secondo i calcoli stimati in precedenza, dal momento che il vento soffiava in direzione opposta alla velocità di circa 60 chilometri orari.
Fu in questa fase che il velivolo incontrò una forte turbolenza che lo portò a perdere circa 100 metri di quota: quando si sorvolano vette alte oltre 5mila metri con un aereo di piccole dimensioni, questa distanza può rivelarsi fatale. Per evitare il peggio, il pilota spinse al massimo i motori, sperando di risalire, ma senza successo: l’aereo urtò con l’ala destra una montagna e precipitò, incagliandosi semidistrutto a un’altezza di oltre 3.600 metri.
Delle quarantacinque persone a bordo, 12 morirono nell’impatto, ed altre cinque nelle 24 ore successive. Ma quanto appena successo era solo l’inizio di una serie di drammatici avvenimenti che sarebbero durati fino ai mesi successivi.
Come sempre succede in questi casi, le autorità cilene a argentine iniziarono una serie di ricerche, senza però trovare tracce dell’aereo, che era precipitato in una zona caratterizzata da cime montuose che superano i 5mila metri, rendendo particolarmente difficili le ricerche. Il 21 ottobre, per questa ragione, ogni attività di ricognizione venne conclusa, e si pensò che per i passeggeri del volo non ci fosse più alcuna speranza.
In realtà, nel mezzo della Cordigliera, la maggior parte dei passeggeri dell’aereo era rimasta viva. In un terreno inospitale al punto da non essere stato raggiunto dalle ricerche, a 3.600 metri di quota, in mezzo alla neve, con temperature che la notte raggiungevano addirittura i 50 gradi sotto lo zero, ma comunque vivi.
In questa situazione, ai sopravvissuti non rimase che cercare un modo per organizzarsi e sopravvivere.
I problemi erano molti. In primis, non sapevano esattamente dove si trovavano: l’incidente era avvenuto in alta montagna, dove i punti di riferimento non sono facili da individuare, e l’altimetro dell’aereo era rotto e indicava 2.100 metri, anziché i 3.600 reali, fuorviandoli ulteriormente. I tentativi di raggiungere zone abitate non erano perciò facili.
I sopravvissuti si trovavano vicino i resti della fusoliera dell’aereo – la coda e le ali si erano staccate durante l’impatto – che era dunque il loro principale riparo, ma che essendo aperta non risultava un sufficiente per riscaldarsi da temperature così gelide. Per questa ragione, i passeggeri costruirono un muro di valige per evitare che potesse filtrare il freddo.
Il cibo consisteva in quello che era a bordo dell’aereo e che fu possibile recuperare nella fusoliera, e per questo venne razionato con attenzione sperando che potesse durare più a lungo possibile. Il pranzo consisteva di vino versato in un bicchiere di deodorante e marmellata, mentre la cena di un quadratino di cioccolata. Per ottenere l’acqua, veniva usato l’alluminio recuperato dall’aereo per sciogliere la neve riflettendovi il sole.
Uno dopo l’altro, molti sopravvissuti – alcuni dei quali erano rimasti feriti nell’incidente – iniziarono a morire. Gli altri si organizzarono perciò in gruppi per cercare di resistere il più possibile, sperando di uscire da quella drammatica situazione. Furono costituiti un gruppo medico che si prendesse cura dei feriti, un altro addetto a procurare l’acqua e un terzo che tenesse in ordine la fusoliera.
Ma il tempo passava, il cibo scarseggiava, e tramite una radiolina che avevano a bordo appresero che le autorità avevano interrotto le ricerche. Ai sopravvissuti non rimase che aggrapparsi alla vita arrivando a ciò che mai avrebbero potuto pensare.
Preso atto che le razioni ormai erano terminate, presero una decisione drammatica: decisero di nutrirsi dei corpi dei loro compagni morti. Questa scelta estrema, discussa per giorni, gli garantì di sopravvivere, ma per loro il dramma non era ancora terminato.
Il 29 ottobre, infatti, una valanga travolse la fusoliera, uccidendo otto persone. Non morirono tutti solamente perché Roy Harley era uscito dalla fusoliera quando aveva sentito il rumore della neve e non ne era stato completamente sommerso, riuscendo a tirare fuori diversi suoi compagni prima che la neve stessa si trasformasse in una lastra di ghiaccio.
Alcuni di loro, a quel punto, si convinsero di essere stati predestinati per portare in salvo i propri compagni.
Il 15 novembre, un mese dopo l’incidente, i sopravvissuti decisero che non potevano più aspettare. Quattro di loro organizzarono una spedizione in cerca di viveri e, soprattutto, di un contatto con la civiltà. Il tempo – nell’emisfero australe le stagioni sono inverse alle nostre – stava migliorando gradualmente, e sembrava potessero esserci le condizioni per spostarsi.
Se questa spedizione non portò ad alcun contatto con altre persone, permise però di ritrovare la coda dell’aereo, staccatasi durante l’impatto, con all’interno alcuni viveri e vestiti puliti. Tuttavia, il mancato salvataggio iniziò ad aumentare la frustrazione dei sopravvissuti.
A dicembre, due mesi dopo l’incidente, solo 16 dei 45 passeggeri del volo erano ancora vivi. La neve ormai si stava sciogliendo, ma i viveri erano di nuovo vicini alla fine e i sopravvissuti stavano arrivando allo stremo delle forze. A loro non rimase che tentare un’altra spedizione, stavolta con un obiettivo molto chiaro: raggiungere il Cile a piedi.
Roberto Canessa, Fernando Parrado e Antonio Vizintin furono scelti per portare a termine questo drammatico incarico, visto come l’ultima ancora di salvezza per il gruppo.
Dopo giorni di cammino, i tre videro le prime tracce di presenza umana, che presero le forme di alcune mucche al pascolo e di una scatoletta metallica abbandonata a terra. Dopo dieci giorni, incontrarono Sergio Catalan, un mandriano che lavorava in quella zona, cui spiegarono chi erano e, soprattutto, che c’erano 13 persone ad aspettarli.
Catalan provvide alle cure dei tre e, soprattutto, li mise in contatto con la polizia cilena, che avvisò le autorità. Il 23 dicembre da Santiago del Cile partirono due elicotteri per organizzare il soccorso dei sopravvissuti, che furono portati in salvo. Alcuni di loro avevano perso fino a 40 chili negli oltre due mesi in cui erano stati costretti ad arrangiarsi.
Negli anni successivi la loro storia fece il giro del mondo, al punto che vennero organizzate escursioni nel luogo dove cadde l’aereo e fu realizzato un film, Alive, che parla dell’incredibile vicenda. Nel 2005, durante un’escursione, un alpinista statunitense addirittura ritrovò un sacco contenente effetti personali di Eduardo José Strauch Uriaste, uno dei 16 sopravvissuti.
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