La data delle elezioni presidenziali americane si fa sempre più vicina. Mancano poche settimane all’otto novembre e mentre Hillary Clinton e Donald Trump si contendono la Casa Bianca a colpi di confronti televisivi, qualche giorno fa è arrivata la notizia che gli Stati Uniti hanno bombardato alcune postazioni ribelli in Yemen, ma i due non si sono pronunciati in merito.
Per quale motivo? È necessario avere delle risposte dai candidati, per capire come pensino di affrontare la questione di un altro conflitto armato in uno dei paesi più poveri del Medio Oriente. Per il momento tuttavia non è sopraggiunta alcuna replica da parte dei due interessati.
Partiamo dai fatti più recenti. Il 13 ottobre scorso l’esercito americano ha preso di mira alcune postazioni militari dei ribelli Houti yemeniti, dopo che una nave da guerra statunitense era stata attaccata da alcuni missili nel Mar Rosso per la seconda volta in pochi giorni.
Il Pentagono ha riferito che i siti radar colpiti, che si trovavano nel territorio controllato dai ribelli Houti, sono stati tutti distrutti. Questi attacchi erano stati autorizzati dal presidente americano Barack Obama, effettuati con missili da crociera Tomahawk e lanciati dal cacciatorpediniere USS Nitze.
Il portavoce del Pentagono Peter Cook ha definito la risposta militare degli Stati Uniti come “raid di autodifesa condotti per proteggere il nostro personale, le nostre navi, e la nostra libertà di navigazione in questo importante passaggio marittimo”.
L’attacco sferrato giovedì scorso dalla marina statunitense ha segnato il punto di svolta in un conflitto che dura da più di un anno: è la prima volta che gli Stati Uniti attaccano in maniera diretta i ribelli nella guerra civile in Yemen.
Da quando il conflitto è scoppiato all’inizio del 2015, gli americani hanno lavorato prevalentemente dietro le quinte, fornendo supporto logistico e armi all’aviazione saudita: lo scorso anno, avrebbero venduto armi per un valore di 1,3 miliardi di dollari al governo di Riad.
A confermarlo, oltre alle testimonianze di decine di funzionari, ci sono anche documenti ufficiali ed e-mail visionate dall’agenzia di stampa Reuters.
L’Arabia Saudita è intervenuta in Yemen nel marzo del 2015 per reinsediare al potere il presidente Abd-Rabbu Mansour Hadi, che era stato cacciato dai ribelli sciiti Houthi, sostenuti dall’Iran.
Inizialmente dovevano essere presi di mira solo i punti strategici sotto il controllo dei ribelli, così come Washington aveva chiesto a Riad inviando una lista di obiettivi da non colpire, con la speranza di limitare il numero di vittime tra i civili.
Le cose sono però andate diversamente e i numeri forniti nel corso dell’anno sulle conseguenze provocate dal conflitto in corso raccontano di una situazione umanitaria terribile.
Qui sotto ne riportiamo alcuni:
– Quasi 370mila bambini sono a rischio malnutrizione.
– I combattimenti da terra e i frequenti raid aerei hanno ucciso più di 9mila persone, tra cui più di 3mila civili.
– Gli sfollati sono circa 2,3 milioni, secondo l’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite.
– Dall’inizio del conflitto sono morti 900 bambini, secondo un rapporto dell’Unicef.
– 14 milioni di yemeniti stanno soffrendo la fame, si tratta di circa la metà della popolazione, che ha urgente bisogno di cibo e cure mediche.
– Circa 500 bambini sotto i cinque anni soffrono di malnutrizione, e circa due terzi di loro sono affetti da malattie e potrebbero morire se non ricevono immediata assistenza medica.
– La malnutrizione acuta grave è una delle principali cause di morte per i bambini sotto i cinque anni.
(Nella foto qui sotto: un bambino yemenita malnutrito. Credit: Reuters. L’articolo continua sotto la foto)
Il governo saudita ha sempre rigettato l’accusa di aver commesso crimini di guerra, ma dai documenti visionati da Reuters è emersa la preoccupazione del dipartimento di Stato americano per la gestione del conflitto, anche se la colpa viene attribuita all’incompetenza dell’esercito saudita.
Nel mese di maggio Washington ha sospeso la vendita a Riad delle cosiddette munizioni a grappolo, considerate molto pericolose per la popolazione civile, e una sessantina di deputati della Camera dei rappresentanti hanno fatto pressione sul presidente Obama affinché facesse retro marcia e interrompesse totalmente la vendita di armi all’Arabia Saudita.
Mentre gli Stati Uniti sono costantemente con gli occhi puntati sulla corsa alla Casa Bianca, sulle bombe cadute a Sanaa nemmeno una parola da parte dei candidati alle presidenziali. Il Pentagono si è limitato a giustificare il bombardamento del 13 ottobre come una ritorsione.
Il timore è che si perdano di vista gli obiettivi reali in questo ennesimo conflitto, come ha sottolineato il portavoce della sicurezza nazionale statunitense, che non ha nascosto una velata preoccupazione: “Alla luce di altri incidenti recenti, siamo pronti a regolamentare il nostro sostegno alla coalizione saudita, allineandolo ai nostri principi, valori e interessi, al fine di contenere al massimo i danni provocati dal conflitto”. A queste parole non sono corrisposti i fatti: pochi giorni dopo la dichiarazione, gli Stati Uniti hanno bombardato le postazioni Houthi.
La situazione in Yemen è già catastrofica e rischia di degenerare. Dall’inizio del conflitto diciotto mesi fa, entrambe le parti in causa (il governo yemenita e i ribelli Houthi) hanno commesso numerose atrocità, e la maggior parte delle vittime sono civili rimasti uccisi negli attacchi aerei condotti dall’aviazione saudita.
Nel 2015 sono stati registrati 101 attacchi contro scuole e ospedali, tra cui due strutture supportate da Medici senza Frontiere. Il primo attacco a un ospedale di MsF risale al 2 dicembre 2015 nella città di Taiz, dove morirono 20 persone, e il secondo è avvenuto ad Abs, il 15 agosto 2016. Dopo l’episodio di Abs l’organizzazione non governativa è stata costretta a ritirare il proprio personale medico dai sei ospedali nel nord dello Yemen in cui operava.
A questa catastrofe umanitaria si aggiungono i primi casi di epidemia di colera, ma anche su questo punto i due candidati alle elezioni americane non si sono mai pronunciati, troppo impegnati a parlare di chi odia di più l’Isis o a discutere su chi ha detto cosa 13 anni fa.